Ritornare in libreria

Tornare in libreria, negli ultimi tempi, è stato qualcosa di speciale; qualcosa di anomalo; un’esperienza esaltante e insieme frustrante. È stato diverso. Dopo un’astinenza pesante, qualcosa ha messo a nudo quell’andare in luoghi del cuore, ben noti, familiari. Li ha rivelati in tutto il loro valore e in tutta la loro criticità.

Siamo tutti preda di una particolare forma di cecità selettiva verso i luoghi e gli oggetti che ci sono abituali; ne è controprova il fatto che, di ritorno da periodo di assenza abbastanza lungo, persino la nostra casa ci sembra diversa, con un qualche sentore di estraneità. Ci sembra un luogo di cui dover rinnovare la conoscenza, ristabilendola su basi diverse.

Certo, nessuno ha mai avuto l’esperienza di tornare da una lunga assenza e riconoscere la propria casa protetto, si fa per dire, da una mascherina che toglie il respiro e appanna gli occhiali; né, soprattutto, dovendo attendere, per potervi accedere, che altri eventuali <familiari> ne siano usciti, in luogo del felicemente incontrarli e salutarli.

Ho sperimentato due ritorni in libreria, nelle ultime due settimane: mi hanno fruttato libri inattesi e un’esperienza segnata da un lieve sentore di disagio, dove la gestualità e i percorsi abituali si inceppavano. Ho provato una forma impropria di attesa; di un cambiamento.

La mascherina, certo. Non è poco. Poi l’esitazione dei gesti; il maneggiare trattenuto, esitante, dei libri; il non maneggiarli veramente. Quel certo vagare tra gli scaffali, non proprio dialogante: con i libri, intendo, che parevano dire non toccatemi.

Le mie prime due gite si sono tuttavia concluse con acquisti interessanti, e non programmati: come ai tempi d’oro. Bello. Forse, cosa per me non abituale, ho portato con me libri da non leggere subito; o quantomeno da leggere in tempi riservati, non di foga.

Hans-Georg Gadamer, “Un secolo di filosofia. Dialogo con Riccardo Dottori”, La nave di Teseo 2019;

Jacques Derrida, “Arieti. Il dialogo ininterrotto con Gadamer”, Mimesis 2019.

Un “ripasso” in scioltezza, nel primo caso? Da unire al breve testo, di Derrida, della Conferenza tenuta il 5 febbraio del 2003 in ricordo, a un anno dalla morte, di Hans-Georg Gadamer. L’anno seguente, a sua volta, ci avrebbe lasciati Derrida, chiudendo un tempo della filosofia – una lenta dolente chiusura di millennio, l’andarsene, a breve distanza l’uno dall’altro, dei <maestri> di un’area del pensiero e, con loro, di un ‘900 che ha rivoluzionato la filosofia. Ci resta Habermas. Poi basta. Credo.

Il lascito di Heidegger; se pure i prodromi c’erano tutti, e anche Heidegger, come tutti, ha pensato dentro il tempo cui è appartenuto, come scindere la rivoluzione del pensiero da lui, con lui, operata da ciò che quel ‘900 ci ha portato. Potremmo veramente scindere il pensiero di Heidegger dalla sua deriva nazista? Assegnare la sua adesione a pura e semplice miseria umana dell’uomo a fronte di una grande capacità del pensiero? A qualcosa del genere? È possibile?

Il ‘900 è stato altro; molto. la fenomenologia, l’ermeneutica, lo storicismo, l’esistenzialismo: ci ha lasciato una grande e controversa eredità, densa di conquiste, di punti di non ritorno (ammesso che ciò si possa mai dire, in campo filosofico).  Si sono aperte strade? O quantomeno piccoli sentieri? Per piccole mete? Oggi non pare.

La scuola di Francoforte. Che, nel mentre lo teorizzava, non ha potuto sfuggire al dominio dell’industria culturale. Dovrei, un giorno o l’altro, ripassare di là; per una breve visita.

I maestri vanno uccisi, sempre, come i padri (le madri sono altra storia: la società patriarcale non aveva bisogno di ucciderle, le bastava – le basta – negarle) e tuttavia l’uccisione serve ad una appropriazione del loro pensiero, anche quando si dichiari di volerne operare la distruzione. Anche qui, nessuna soluzione di continuità. E oggi? Quale pensiero?

Al solito, non sottoscrivo ciò che dico: riflessioni, se si possono chiamare tali, vaghe; antinomie, senza di cui, tuttavia, è quasi impossibile il pensiero.

Un piccolo ripasso, dunque; una breve visita a vecchi zii che mi hanno raccontato le favole, in un tempo lontano. E le favole non si possono semplicemente rimuovere, men che meno ricusare, pena il rischio che, in un momento di distrazione, ti ricatturino, facendoti preda di artigli possenti.

Ma queste sono chiacchiere. Che hanno a che fare con l’andare in libreria – fonte di pensiero, di scelta, di intuizioni sui propri bisogni sogni fantasticherie La libreria è anche, forse soprattutto questo. Occorre entrarvi, e girovagare, toccare, ascoltare pagine ancora mute, che sussurrano.

Si entra, si cerca o si chiede, si ottiene o, troppo spesso, non si ottiene quanto richiesto; e poi, sì, se si è lettori, ci si attarda a girovagare tra gli scaffali, si raccoglie qualche altro libro, talora felici di una scoperta, talora solo perché non si può proprio uscire da una libreria a mani vuote.

Oggi, e qui sta il problema, non è necessaria alcuna libreria per avere i libri: si possono acquistare direttamente dalla CE; dal maledetto/benedetto Amazon; online da librerie sconosciute. Questo è qualcosa con cui fare i conti.

È anche qualcosa di assurdo: un tempo, la libreria era il solo luogo dove si potevano acquistare libri – e la libreria non era solo questo. Oggi, in un tempo che non chiede più alle librerie di essere un luogo esclusivo per l’acquisto, siamo a questo.

E dunque: cos’è una libreria. La domanda non chiede punto interrogativo, nel modo in cui sappiamo; di quel sapere, per l’appunto, che non vede ciò che è familiare; con la cecità selettiva che conserva la persistenza, lasciando il cambiamento inavvertito, a meno che qualcosa – una lunga assenza, la rottura di una consuetudine, per l’appunto – non giunga a spezzare gli automatismi dei sensi e del pensiero.

Non è una vera domanda. Pure: proviamoci.

La libreria è il luogo dove si trovano, si scelgono e si acquistano i libri.

La libreria è il luogo dove un libraio ci aiuta ad orizzontarci, ci affianca nella scelta, cosa che comporta un dialogo, comporta una relazione in forza della quale il libraio si farà carico di conoscere il cliente e i suoi interessi/bisogni di lettura.

Proviamo a verificare queste due prime affermazioni: ci accorgeremo che non corrispondono più, o molto poco, alla realtà. Ma la libreria è anche qualcos’altro.

È il luogo dove, aggirandosi tra gli scaffali, il cliente sperimenterà un’apertura all’inatteso – e, per dirla con Calvino (se volete, guardate qui) qualora sia entrato deciso a impossessarsi di un preciso libro, proprio e solo quello, dovrà munirsi di paraocchi e, conoscendo bene i sentieri di quel bosco, dirigersi, cieco e sordo ad ogni altro richiamo, esattamente e solo lì. Difficile. Impossibile non venir catturati dalla magia del luogo.

La libreria è il luogo dove si entra per venir catturati, per l’appunto, dal bosco; dai suoi sentieri; dagli scorci di luce inattesi, dal pensiero, dal fiore e dall’arbusto sconosciuti; dalle ombre e dagli scorci di luce; da rumori lievi, sussurranti.

Come in ogni bosco che si rispetti incontreremo pure deiezioni, e dovremo far attenzione a dove mettere il piede, la mano – la fauna scrittrice comprende una enorme varietà di specie, ognuna utile all’equilibrio del sistema, in tutte le sue produzioni: immondizia a parte che, a differenza di quanto avviene nel bosco, nel mondo naturale, tra noi umani, nel regno della cultura, pare inevitabile.

La libreria è dunque il luogo dove andare a rigenerarsi, senza domande, da cui uscire con domande aperte, e indicazioni di percorsi a sorpresa.

Tutto molto bello. Vitale. E tuttavia, la libreria è oggi anche il luogo dove i libri non si trovano: paradossale e ovvio. Così come non esiste un negozio di prodotti alimentari che fornisca ogni cosa commestibile esistente al mondo.

La libreria è il luogo che mette a nostra disposizione un catalogo, anche molto ampio, certo, e tuttavia una scelta di libri, secondo criteri non sempre evidenti. Non sempre finalizzati al lettore; finalizzate al consumatore: altra cosa.

La libreria di catena, soprattutto, è il luogo dove si vendono libri secondo criteri evidenti e, nel bene e nel male (solitamente, ma non sempre, vale la seconda), se scegli di entrare sai bene cosa troverai.

Ci può stare. Sufficiente sapere cosa si vuole nel momento dato. Perché no.

Ci sono i librai che vi lavorano, professionisti che, vendendo libri, vorrebbero promuoverne la lettura, assistere il lettore, conoscerlo, porsi al suo servizio.

Fattibile? no. La loro professionalità sarà imbrigliata, in quel luogo, da attività di vendita vincolate: non in assoluto, certo; ma per lo più. Ci saranno, a sfinire e consumare il tempo, gli ordini, le rese, gli scatoloni da sballare, gli scatoloni da ricomporre, gli scaffali da riempire, gli scaffali da vuotare, ancora le rese, ancora scatoloni. E, soprattutto, un’attività <prescritta>.

Magari è solo una mia immaginazione genere incubo. Ma non credo.

Poi, tutti conosciamo e frequentiamo una, due piccole librerie molto amate che stentano a sopravvivere. Talvolta le perdiamo. Il confronto è impari: la distribuzione, gli sconti, le promozioni, gli eventi che devono celebrare l’autore televisivo, le (la) grandi case editrici.

Le librerie. Un tema ostico. Una risorsa che difficilmente si coniuga con la lettura, e con un’editoria, massificate. Una risorsa irrinunciabile. Pure se, a ben vedere, mai esistita nelle piccole realtà comunali che frammentano l’Italia. Una risorsa nata per una élite? Incapace di svincolarsi dal suo atto di nascita?

Forse dovremmo parlare di biblioteche.

Ho acquistato altri due libri.

Ivy Compton Burnett, “Il capofamiglia”, Fazi editore 2020. Chissà, sarebbe bello ritrovare questa autrice, da tempo introvabile, in libreria. Spero che Fazi prosegua a pubblicarne le opere.

Kawamura Genki, “Se i gatti scomparissero dal mondo”, Einaudi 2019. Titolo curioso. Vedremo.