Avevo raccontato, nel precedente “Avviso” (qui), l’uscita, in e-book, di una mia lunga fiaba per bambini: esito di attività nonnesche che, forse, sono state semplicemente, se non un alibi, il detonatore di un interesse che avevo sempre avuto e, stranamente, mai in precedenza messo a fuoco.
“Il Paese di Chebello”, di cui avevo dato notizia a febbraio, era un e-book che ancora non disponeva della versione cartacea; e avrebbe dovuto esser seguito da una seconda fiaba, un seguito della prima – “La casa dello gnomo: nel Paese di Chebello” – in ottemperanza a una richiesta nipotesca da me subito colta: e dunque sono seguiti il secondo e-book e il secondo cartaceo.
Covid aiutando e intralciando, sono giunta al termine di questo percorso e ora il tutto è reperibile in Amazon: (qui) e (qui)
Che dire: fatico a scriverne, per la verità; ma desidero anche moltissimo condividere questo gioco-fatica-lavoro che ora voglio continuare – assicurando, tuttavia, che una eventuale prossima puntata non capiterà a breve.
Non posso ovviamente dire qualcosa sui risultati ottenuti: i miei unici critici, al momento, sono stati, diciamo pure, di parte: i due nipoti maggiori. E io mi appiglio, per considerarli critici indipendenti, al fatto che, come ben sappiamo, se da un lato i bambini vengono educati a dire sempre alla nonna che il suo ragù è buono, non arriverebbero, per sola buona educazione, a chiederne una seconda porzione. Ritengo dunque il loro giudizio un campione microscopico ma affidabile.
Detto questo – era la parte faticosa – mi dedico alle chiacchiere.
Per parte mia, ho spesso aperto e chiuso, su queste pagine, il tema della narrativa per ragazzi, anche se mai, prima, mi ero spinta, pur frequentandola, a mettere in campo il tema della narrativa <per bambini>.
Mi sono proposta più volte di dare uno spazio specifico a questi temi; ho addirittura preso, in passato, un qualche impegno in proposito, mancandolo ignobilmente per la difficoltà di metterlo a fuoco. Non vi ho tuttavia mai rinunciato (sospetto, scrivendo, che demordere non possieda participio passato in uso!) e ho continuando ad elaborare fantasie simil-progetti che, a modo loro, vedono un avanzamento.
(Nota a margine: ho verificato e il participio passato di demordere esiste: è “demorso”: scelgo di ritenerlo inesistente!)
Mi guarderò bene dunque dal prendere ulteriori impegni, ben sapendo tuttavia che non vi rinuncerò.
Che dire. Al di là del fatto di aver trovato lo scrivere fiabe particolarmente coinvolgente e piacevolmente impegnativo, le due storie, e particolarmente la seconda, contengono filastrocche e, confesso, ci ho dovuto lavorare duro allegramente: ero fuori allenamento.
Ho lavorato desiderando dare ai bambini il piacere di ascoltare e leggere storie che li coinvolgano, che siano a misura del loro bisogno di giocare e imparare. E frequentando, di mio, e in abbondanza, la narrativa per l’infanzia, mi sono formata alcune idee in proposito.
La prima: il linguaggio. Frequento (acquisto) libri per bambini e non posso se non constatare che troppo spesso li trovo caratterizzati da un linguaggio povero, come se gli autori scegliessero, di proposito, di “facilitare” il testo. Il risultato sono spesso testi ai limiti della scorrettezza sintattica. Sono, soprattutto, scarsamente rispettosi delle capacità, dei bisogni e degli interessi dei bambini.
Chiaro, è solo il mio parere, e può essere sbagliato, oltre a contenere un improprio processo alle intenzioni. Ma i bambini, quei cuccioli che, finito di lallare, in due anni imparano bene una lingua e talvolta più di una, hanno bisogno di sviluppare sempre più la loro competenza linguistica; hanno bisogno di essere posti a confronto con un linguaggio che, anche, li impegni; hanno bisogno di ampliare il loro vocabolario, di arricchire la competenza sintattica, per non dire di sviluppare la competenza logica, e dunque di affrontare testi che comportino sequenze narrative anche complesse; anche quando sono ancora alle prese con fate gnomi folletti e fatine dei denti.
Il bambino che legge dovrebbe, al meglio, avere un adulto al fianco che lo aiuti: ma è comunque in grado da sé di appropriarsi del linguaggio. Ciò che invece avrà difficoltà a fare sarà transitare dalle dieci pagine cartonate con una sola frase di testo e belle grandi illustrazioni (libri benemeriti!) al romanzo, trovando, tra questi due poli, unicamente prodotti che non lo mettono alla prova e non lo incuriosiscono.
Ci sono poi i libri di testo della scuola primaria; e se, magari per le vacanze estive, vengono proposte delle letture, facilmente i bambini avranno a disposizione brevi testi decisamente al di sotto delle loro capacità – capacità di annoiarsi a parte. Così, se la lettura non è frequentata in famiglia, ma se, soprattutto, non lo è l’abitudine di raccontare e leggere le fiabe, al momento in cui saranno in grado di leggere in autonomia il libro avrà già perduto il suo fascino, che deriva dal fascino della voce che narra.
Ci sono i grandi autori, chiaro. Che affascinano i bambini, e il cui linguaggio è infatti straordinariamente ricco. Appartengono a un tempo, non troppo lontano a ben vedere, in cui tuttavia non esisteva una separazione netta tra il mondo dell’infanzia e quello adulto; a un tempo in cui gli adulti erano ben coscienti del fatto che i bambini ascoltavano e comprendevano perfettamente i loro discorsi, particolarmente se non rivolti a loro.
Sempre per prepararmi a leggere ai nipoti, e non rischiare di non aver proposte adeguate e verificate (ma anche, e molto, per piacer mio) sto leggendo in questi giorni, nei buchi di tempo, “Le cronache di Narnia” dove, nel terzo libro, trovo questo passaggio: i personaggi sono due cavalli parlanti e due bambini, la principessina Aravis e il ragazzino povero, Shasta, a spanne intorno ai nove-dieci anni.
E il narratore, Clive Staples Lewis, commenta la storia che sta raccontando:
“Aravis cominciò il racconto, seduta con compostezza, e in un tono e in un linguaggio ben diversi da quelli di prima. A Calormen si insegnava a raccontare le storie, sia vere che inventate, come oggi si insegna ai bambini a svolgere un tema scritto. Solo che mentre la gente si diverte a sentire le storie, a nessuno, che io sappia, fa piacere leggere i temi.”
Le sue storie sono state scritte negli anni ’50, e va bene, diciamo che sono storie del secolo scorso, che per i bambini di oggi sono storie di un autore dell’antichità: che tuttavia sapeva che i bambini amavano le storie lunghe, e le saghe. E amavano leggerle. E sapeva, da insegnante e da (ex) bambino, che a nessuno piace leggere i temi; e neppure le storie di quello che ai miei tempi veniva chiamato il sussidiario (che quasi sicuramente oggi ha un altro nome). E dunque: perché oggi si sceglie, ma proprio davvero, di annoiare i bambini?
Tutto questo ha certamente poco a che fare con le mie fiabe. Ha a che fare con una passione e con la voglia (trattenuta, lo assicuro) di parlarne. Con la speranza che anche qualche adulto faccia la prova e legga qualche fiaba: anche di nascosto, non occorre, pure se sarebbe meglio, confessarlo.
Dopotutto, le hanno lette e scritte professoroni come C.S. Lewis. E dunque?
Per me, mi dà piacere aggiungere una goccia all’oceano e sperarla profumata. Impegnandomi, se ci riuscirò, a far meglio.
Non sto a dirvi delle mie storie. Vi appioppo solo l’inizio di una delle ultime filastrocche, che arriva dalla voce di un abitante del Mondo Piccino che sta salutando, a suo modo, i due bambini protagonisti della storia:
Tutti quelli che narran le fiabe
Sono stati un dì bimbi quaggiù
E han potuto con noi festeggiare.
Poi, tornati al lor mondo lassù,
Raccontavano “C’era una volta”
Concludendo “e or non c’è più.
Se le fiabe per sempre amerete
Ascoltare, sognare e narrare,
Ogni giorno per altri bambini
Questo mondo ancor si aprirà…
E se siete arrivati fin qua, grazie mille.