È vero? Certo!

J.R.R. Tolkien, “Saggio sulla fiaba”: In “Albero e foglia”, Rusconi 1976

Traduzione di Francesco Saba Sardi

Contiene:

Sulle fiabe

“Foglia” di Niggle

Fabbro di Wootton Major

Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorthelm

 

Sulla fiaba

 Incipit:

“Il mio proposito è di parlare delle fiabe, per quanto sia consapevole che si tratta di un’impresa azzardata. Feeria è un paese pericoloso, pieno di trabocchetti per gli incauti e di tranelli per i temerari. (…) è un paese del quale sono stato poco più di un esploratore casuale (o forse un intruso) pieno di meraviglia ma sprovvisto di informazioni.

Il reame delle fiabe è ampio, profondo ed eminente, pieno di molte cose; vi si possono reperire animali terrestri e alati di ogni specie, vi sono mari sconfinati e miriadi di stelle, una bellezza che incanta e pericoli sempre in agguato; e la gioia e il dolore vi sono affilati come spade. È un reame in cui un uomo può forse considerarsi fortunato per avervi vagato, ma (…) mentre vi si trova è rischioso per lui porre troppe domande, per tema che i cancelli si serrino e le chiavi vadano perdute.”

Inizia così un saggio sul tema Fiaba molto particolare per la commistione che l’autore compie tra piani diversi: vi troveremo l’ottica dello studioso, quella del curioso appassionato e quella di un frequentatore che ne conosce e ama “i pericoli”, da cui mette in guardia.

In veste di studioso, Tolkien pone delle domande: che non paiono aver vera cittadinanza nel testo, avendoci egli detto, fin dall’incipit, come non sia bene porne, quantomeno non troppe, mentre ci troviamo in Feeria, “per tema che i cancelli si serrino e le chiavi vadano perdute.”

Di più: ci dice di non porre domande <mentre siamo dentro> quel mondo: ed ecco che l’esistenza fattuale di Feeria è implicata.

Feeria è, si ritiene debba essere, un <luogo della mente> riservato ai bambini, per un breve tratto della loro infanzia: ci penserà poi il mondo adulto, che vi accompagna i bambini, a far sì che, un brutto giorno, quei cancelli si chiudano per sempre al loro accesso.

Ed ecco l’avvertimento paradossale di Tolkien agli adulti: attenti, se entrerete in quel mondo potreste non poterne, o volerne, più uscire.

La verità è che non correremo alcun pericolo dentro Feeria – prova ne sia che la cediamo ai bambini, lasciamo che se la portino nella loro cameretta, senza tema alcuno di far loro incontrare “matrigne, orsi e tori fatati, streghe, cannibali, tabù su nomi e via dicendo.”

Tolkien ci indurrà dunque ad entrare nel mondo della Fiaba distraendoci con tre domande, da studioso; come dire fornendoci un alibi: “Cos’è una fiaba? Quale ne è l’origine? A cosa servono le fiabe”.

Senonché, dopo attenta lettura, ci troveremo costretti a concludere che il Professore non risponderà a queste professorali domande. Non per davvero. Avanzerà ipotesi; riferirà su tesi e argomentazioni che nel tempo sono state avanzate. Sostanzialmente, ci dirà che non gliene importa molto, quasi fossero questioni di lana caprina.

E passerà a parlarci della relazione bambini-fiaba, a partire dalla risposta, apodittica, a una domanda implicita: chi è il bambino?

 “L’opinione più diffusa sembra quella secondo la quale esiste un rapporto naturale tra (le fiabe) e la mente dei bambini, un rapporto delle stesso tipo che lega il loro organismo e il latte. Ritengo si tratti di un errore commesso soprattutto da chi (…) tende a considerare i bambini quali esseri di una specie a se stante, quasi una razza diversa, anziché quali membri normali, ancorché immaturi, di una famiglia particolare e della famiglia umana in generale.”

Non esiste, dunque, una alterità bambino-adulto che possa giustificare una relazione bambino-fiaba da cui l’adulto sarebbe escluso; esiste solo un diverso livello di maturità, di esperienza, conoscenze, autonomia.

Tolkien argomenterà prendendo le mosse da due <postulati> che offre al lettore come incontrovertibili:

  1. Non tutti i bambini amano le fiabe (ancorché vengano loro proposte);
  2. Chi ama le fiabe da bambino le amerà da adulto.

In realtà, in seguito emergerà una terza posizione: quella di chi, ed è la sua personale esperienza, non ha amato le fiabe da bambino e se ne è innamorato da adulto.

Ne consegue che rinchiudere le fiabe nella stanza dei bambini (qui) porta al loro deterioramento (come avviene per qualsiasi cosa lasciata, incustodita e non protetta, nelle mani dei piccoli vandali. E implica un squalifica del loro valore, essendo acclarato come un qualsiasi oggetto, in tali mani, “si deteriorerebbe gravemente.”

“Allo stesso modo un buon tavolo, un buon quadro, un congegno utile (ad esempio un microscopio) lasciati a lungo incustoditi in un’aula scolastica verrebbero guastati o rotti.”

Ma c’è un aspetto di quanto dice Tolkien che interroga chi legge; e che l’autore non affronta: perché “buttiamo” nella “stanza dei bambini” le cose che non ci sono più utili, cui attribuiamo scarso, se non nullo, valore?

Esiste una relazione tra questo comportamento (la “stanza dei bambini” come un particolare cassonetto per gli indumenti usati) e il fatto (e torno a Tolkien) di “considerare i bambini quali esseri di una specie a se stante”?

Nella storia della specie umana è recente il dispositivo culturale che prevede il distanziamento infanzia-età adulta; e dunque il fatto che ci sia una “stanza dei bambini” dove questi ultimi possano giocare e, essendo bambini, distruggere o maltrattare giocattoli e mobilia varia. Non è sempre stato così. O quantomeno lo è stato in modo affatto diverso.

Nella storia, i bambini non hanno sempre costituito una categoria a se stante della specie umana. Erano <solo> esseri umani in procinto di diventare fattivamente tali; immaturi, per l’appunto. Non sono sempre stati titolari di speciali diritti, ma solo di cura e di aspettative. Nel frattempo, per dirla in soldoni, si rendessero utili, facessero in modo di apprendere ciò che sarebbe loro servito sapere e saper fare nella vita adulta e provvedessero a dare il minor disturbo possibile.

Intere civiltà si sono sviluppate su questa base, dove in discussione non vi era certo l’amore dei genitori per i propri figli ma, per l’appunto, il non considerarli appartenenti a un mondo-altro e accreditati di uno statuto speciale.

Presentavano bisogni connessi al loro incompleto sviluppo e, dunque, andavano accuditi. Ma basta là.

In altri tempi, e nelle comunità in cui, non esistendo ancora la stampa, si dipendeva, per la fruizione delle storie, dall’oralità (dispositivo fondamentale di trasmissione culturale, oltre che fonte di piacere), bambini, giovani, adulti, anziani hanno vissuto insieme, negli stessi spazi, raccontando e ascoltando le stesse storie. E i racconti, le <storie> (compresi i fatti della comunità e i pettegolezzi), non richiedevano, di massima, se non una minima selezione di contenuti per l’infanzia.

Dopotutto, la cosa è di una semplicità disarmante: se ascoltando una storia il bambino capisce di cosa si parla significa che possiede le conoscenze necessarie ad ascoltarla; in caso contrario, semplicemente non la comprenderà, in tutto o in parte, o la comprenderà a modo suo. Per male che vada, porrà domande – cosa sempre buona in sé – e sempre per male che vada gli verrà risposto che lo capirà più avanti – ottimo stimolo, che talvolta potremmo sospettare perduto, a fargli desiderare di uscire rapidamente dall’infanzia e impegnarsi ad essere adulto: non è questo che tutti desideriamo faccia un bambino?

Perché dunque, e quando, la società adulta ha attuato una separazione – attenzione: caricata di significati dichiarati <tutti> positivi – tra infanzia e <resto del mondo>?

Perché dunque, e quando, gli adulti hanno operato una squalifica del mondo di Feeria, assegnandolo all’infanzia e, con ciò, ponendolo nella stanza dei bambini?

Non è questo il luogo adatto per affrontare un tema di questa portata, ma mi pare importante quantomeno titolarlo: i motivi, infatti, non sono, necessariamente, dettati dall’amore per l’infanzia.

Tolkien passa poi ad indagare il tema della “sospensione dell’incredulità”: atteggiamento mentale richiesto per l’accesso a Feeria così come per l’accesso a molte forme di narrazione; disposizione mentale cui anche gli adulti indulgono senza remora alcuna, ritenendola piacevole e pure utile.

In realtà, afferma Tolkien, ciò che viene narrato in una fiaba è, in effetti, pienamente “vero” nel senso che “concorda con le leggi che vi vigono.

(…) ci si crede mentre vi si è, per così dire, dentro. Nel momento stesso in cui l’incredulità si manifesta, l’incantesimo è rotto, la magia, anzi l’arte, hanno fatto fiasco. E rieccoci nel Mondo Primario, a guardare dall’esterno il piccolo, abortito Mondo Secondario.”

“L’incantesimo” ci dice ancora Tolkien, non risulterà più facile con i bambini che, semplicemente, mancano degli strumenti per esprimere le loro eventuali perplessità. Il bambino, al massimo, potrà chiedere: è vero? Senza indagare cosa significhi, nel contesto, <esser vero>.

“Può darsi che un bambino creda alla diceria che nella vicina regione ci sono orchi; a molti adulti riesce facile crederlo di altri paesi”.

Difficile dirlo meglio.

“Non mi ricordo – ci dice Tolkien, parlando della propria infanzia – che il godimento di una narrazione sia mai stato legato alla credenza che cose del genere potessero accadere o fossero realmente accadute nella <vita reale>. Semplicemente, le fiabe erano connesse soprattutto, non con la possibilità, bensì con la desiderabilità. Se risvegliavano il desiderio, soddisfacendolo e a volte stimolandolo in misura insopportabile, avevano raggiunto il loro scopo.”

Restano, in questa trattazione, temi che verranno sviluppati, ma di cui non è possibile dar conto: già sto chiacchierando troppo.

Tolkien affronterà qui il tema della Fantasia, della funzione, svolta dalla fiaba di ristoro, evasione, consolazione, ribadendo come “l’esame analitico (delle fiabe, costituisca) una pessima propedeutica al loro godimento o alla loro compilazione”.

Ma occorre chiudere con l’Epilogo dove Tolkien ci ricorda che ha scelto la <gioia> a segno della vera fiaba (o racconto fantastico). Ci ricorda la fatidica domanda: è vero? E la risposta:

“Se avete costruito bene il vostro piccolo mondo, sì. È vero in quel mondo”

Si apre qui, tuttavia, quella che io sento come una discontinuità nella trattazione del tema.

La chiusura di questo percorso avrà a che fare con quella che Tolkien chiama <la vicenda cristiana>, affermando che “i Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe.” E dedicherà a questo tema l’intero paragrafo.

Una conclusione che sento, come dire, forzata: tanto più volendo mantenere l’ottica di una indagine sulla fiaba condotta da uno studioso. E non so se, da parte di un credente, la narrazione dei Vangeli possa essere considerata, come qui viene posta, qualcosa di simile a un semplice dispositivo valoriale. Né, peraltro, se lo possa una fiaba.

Resta, il saggio “Sulla Fiaba“, un’opera di grande interesse e piacevole lettura. Come, peraltro, i bellissimi racconti contenuti in “Albero e foglia-