È stato bello, per il primo giorno finalmente in zona gialla, andar per libri fuori Comune. Con aggiunto pranzo al ristorante.
Non ho portato a casa molto, ma qualcosa di buono certamente sì: meno, come ormai da regola, il libro che cercavo.
Ho trovato una copia di “L’uomo che cadde sulla terra” di Walter Tevis, libro che ho amato e avevo recensito anni fa (qui). Per la verità, avevo visto, appena entrata, un altro libro di Tevis che non ho ancora letto: “La regina degli scacchi”. Ne ho subito preso in considerazione l’acquisto, riservandomi tuttavia di rivedere la scelta in base a quanti e quali altri libri avessi trovato (anche il portafoglio ha le sue esigenze; tocca scegliere) e così, mentre guardavo altri libri, una giovane cliente, direi abituale a giudicare dallo scambio di saluti e dalla veloce interazione con il giovane libraio, è entrata, ha espressamente richiesto il <mio> libro, se l’è preso ed è uscita.
Ho temuto subito che si fosse conquistata la sola ultima copia rimasta: e così era stato. Sarà per un’altra volta. Ho tuttavia deciso, quale rivalsa, di riacquistare, in altra edizione, il Tevis già in mio possesso: so già a chi regalarlo.
È seguita la scelta di Don Delillo, “Il silenzio”, Einaudi 2021, appena uscito: un romanzo breve-lunga novella: trattandosi di Delillo, la dimensione contenuta può essere cosa buona per un libro cartaceo che, ormai, mette a dura prova i miei occhi e di cui finisco regolarmente per scaricare (e pagare) anche la copia in e-book: a scanso rischi, me lo sono tenuto da subito tra le mani: mio!
Non avevo più letto Delillo da troppo tempo, e sta tuttora nel mio pensiero una lettura di Underworld, sempre rinviata in attesa del momento giusto. Avevo molto apprezzato “Rumore bianco” (qui), un romanzo i cui aspetti profetici sono oggi particolarmente puntuali, se posso dire.
Sono trascorsi sei anni da quella lettura; e io dovrò imparare a dare maggior attenzione al tempo che scorre. Dovrò imparare a farci caso: noto infatti che il normale trascorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi, diversamente da quanto avveniva un tempo, ora mi invecchia; si fa sentire: sarà dunque il caso, per alcune cose, di affrettarsi.
Ho ripreso a gironzolare nella piccola e ben fornita libreria – che, per la cronaca, si trova a Conegliano (e abitando io a Treviso, a circa trenta chilometri di distanza, avevo dovuto attendere la riapertura dei confini comunali per raggiungerla). È una libreria “Tralerighe”, che fa capo alla omonima CE; e, nel caso specifico, è un luogo dove ci si sente a casa, come stessimo spulciando tra gli scaffali di una ideale grande libreria personale sempre magicamente arricchita di nuovi libri. E come non farsi attrarre da un titolo che suona così:
“Storie di gente felice”, Lars Gustafsson, Iperborea 2020?
Con i tempi che corrono! Ha completato il piccolo bottino (mi rifarò presto) un libro scovato da mio marito:
Antonio Menegon, “Fascismo in cattedra. Storia di un maestro a Susegana tra le due guerre”, De Bastiani editore, Vittorio Veneto 2020.
Nota: Susegana è un paese della provincia di Treviso, poco più di undicimila abitanti, sul Piave – dove sullo storico ponte campeggia la scritta “Fiume sacro alla patria”. Vi si trova il Castello di San Salvatore dei Conti di Collalto dove ogni anno (tristemente saltato il disgraziato 2020) si tiene, nel primo week end di ottobre “Libri in cantina”, Mostra Nazionale della piccola e media editoria.
Per la partecipazione di case editrici, per la bellezza, anche paesaggistica, dell’ambientazione e per le iniziative collegate (conferenze, incontri con gli autori, reading di poesia, appuntamenti musicali) i giorni della Mostra costituiscono un tempo particolarmente bello per il territorio della Marca Trevigiana.
Tornando a “Fascismo in cattedra”, il libro viene assegnato al genere “romanzo” ma tratta di fatti realmente accaduti e di persone realmente vissute, ancora presenti alla memoria di molti: ad esempio, di mio marito, e per conseguenza di tutti coloro che, bambini, negli anni, vado a spanne, tra il 1955 e il 1958, erano stati allievi del maestro il cui diario, per la parte che si riferisce alla sua esperienza alla scuola elementare di Susegana, costituisce buona parte del libro; integrato peraltro da un corposo apparato iconografico (79 pagine, per 167 illustrazioni), che mostrano il paese e la sua gente, dall’immediato primo dopoguerra alla fine degli anni ’50, attraverso la riproduzione di cartoline, stampe, fotografie (tra cui una foto di classe che vede, tra gli alunni, anche mio marito bambino, che ha vissuto a Susegana una parte significativa della sua vita e vi ha frequentato le due ultime classi delle elementari).
La foto di classe, ovviamente, sta anche negli album della mia famiglia ma tutta la rimanente documentazione fotografica costituisce un allargamento e arricchimento dei ricordi, un loro completamento, una collocazione che ne fa “discorso”, e dialogo.
Si tratta di un’opera davvero interessante per il mantenimento della memoria storica di chi abita questi luoghi, ma anche per chi, dentro queste foto, dentro queste storie, può riconoscere una storia propria, del proprio altro paese, della propria gente, per non dire di altre genti: è Storia fatta racconto, di quando … mio nonno mi raccontava che; …poi c’era uno, in paese, che abitava…ora la casa non c’è più ma stava là dove ora….
Un libro come questo recupera e salva la memoria della guerra vissuta dai luoghi e dalla gente – non dal <popolo>, non interpretata da asettici <noi e loro> – pure se c’è anche questo, c’è, ben distinto, un <noi> e un <loro>, e non si tratta di un dettaglio. In queste pagine tuttavia il <loro> è anche e ancora un <noi>: è quel tale, e quell’altro, figlio di, fratello di…che se ne è andato via, ma era parente di…che poi ha sposato…e oggi i suoi nipoti…
In queste opere viene salvato lo spessore vissuto della storia; uno spessore che rende tutto più chiaro, che fissa la memoria, quella vera, che è sempre, e solo, quella narrata, possibilmente da una voce ma anche, quando le voci saranno spente, da pagine, e da immagini, accompagnate, ora, da una voce immaginata che la pagina restituisce.
Mi leggerò dunque la storia di un maestro che ha attraversato, insegnando, gli anni dal 1935 al 1960 di un paese – una guerra, una ricostruzione. E guarderò le fotografie di una piazza diversa e conosciuta, di case com’erano, di ruderi, di tante macerie, di luoghi riconoscibili, che hanno saputo permanere nel cambiamento e assicurare così la permanenza di una comunità capace di riconoscersi tale.
Una nota: la editrice De Bastiani, ben nota e apprezzata nel nord-est, è specializzata in pubblicazioni aventi a tema la storia del territorio, il suo folclore, la gastronomia, pur spaziando anche nel campo della poesia e della narrativa. Come tante altre realtà editoriali locali gode, oggi, della possibilità della diffusione online che rende accessibili opere, spesso pregevoli, in un recente passato escluse di fatto dalla distribuzione a largo raggio. È uno degli aspetti positivi del mercato librario attuale che può correggere, per l’appunto, la strettoia della distribuzione così come la scarsa diffusione delle librerie sul territorio italiano. Oggi, questo libro, e i tanti libri vittime delle storture del nostro mercato, sono raggiungibili: soddisfacente.
Nel frattempo, come dicevo, non ho trovato il libro che cercavo:
Massimo Roscia, “Il dannato caso del signor M”, exorma 2020.
Ormai sono rassegnata; è trascorso un tempo che preferisco non ricordare dall’ultima volta che, chiedendo un libro in una qualsivoglia libreria, l’ho trovato. Insisto a chiedere, per partito preso. Insisto per il desiderio di avere ancora e sempre una libreria quale referente per l’acquisto di libri cartacei; mi resta, non è poco, la libreria come luogo dove andare a caccia di libri inattesi, a raccogliere pagine impreviste; il luogo dove trascorrere del tempo in compagnia del famoso “odore di libri nuovi”.
Non è poco, dicevo; è la cosa prevalente. Ma vorrei, vorrei davvero, fosse ancora il luogo da cui uscire avendo tra le mani (anche) il libro che mi ero ripromessa di acquistare; vorrei non tornare a casa e dover fare quel famoso clic che porterà il libro direttamente tra le mie mani già il giorno seguente. Vorrei non ritrovarmi ad essere confusa: interiormente grata ad Amazon prime e insieme a disagio.
Ci sarebbe anche la soluzione di telefonare alla libreria, in previsione di una “gita” e chiedere, con un qualche tempo innanzi a sé, di far sì che per quel giorno, magari da concordare, il libro desiderato vi si trovi e attenda proprio me. Semplice, volendolo, tenuto conto del fatto che, ormai, è davvero difficile che io acquisti – salvo, per l’appunto, nel caso di una estemporanea gita in libreria e di acquisti non programmati – il cartaceo di un libro che io non abbia già letto in formato e-book e, solo in seguito, scelto di dover possedere nel suo giusto formato, per continuare ad appesantire scaffali che non lo richiederebbero.
Il nuovo romanzo di Massimo Roscia, dicevo, che, per l’appunto, ho letto in e-book e desidero avere in cartaceo: impagabile. Come, peraltro, il precedente “La strage dei congiuntivi” (qui).
In questo libro c’è, oltre all’inventiva, ai richiami storici, al gioco (assolutamente prestigioso) con il linguaggio, con le parole, quel qualcosa in più che ha a che fare con quel signor Emme, provvisoriamente non meglio definito.
Ma non voglio anticipare nulla. Spero di riuscire a dare una restituzione di questo romanzo anche se, devo confessare, sto valutando l’opportunità di prendermi una breve vacanza da queste pagine. Ci penserò.
Temo di dover smaltire le troppe letture che ho in corso, e disintossicarmi da una dipendenza che mi porta a volerle tenere tutte attive mentre, come un giocoliere inesperto, o che, pure esperto, presuma troppo di sé, sto per ritrovarmi travolta dalla perdita di controllo sul gioco.