25 Novembre: un flop?

Scriveva John Stuart Mill, nel 1869:

“Nessuno schiavo è schiavo in modo così completo, e nel pieno senso della parola, come lo è una moglie. Difficilmente uno schiavo, a meno che non sia costantemente vicino alla persona del padrone, è schiavo a tutte le ore e in tutti i minuti; in genere egli ha, come il soldato, un compito ben stabilito e quando lo ha eseguito, o quando è fuori servizio, dispone entro certi limiti del proprio tempo. Inoltre ha una vita familiare in cui è raro che il padrone si intrometta.”

Oggi, tendiamo a non ricordare che la ‘schiavitù’, e spesso una condizione peggiore della schiavitù giuridica classica, riguarda la maggioranza delle donne al mondo. (qui)

Ho iniziato a scrivere questo post il 25 novembre: Giornata mondiale (di che ridere) per l’eliminazione della violenza contro le donne (e qui la risata si fa incontenibile e amarissima). Giornata voluta e indetta dall’O.N.U.

L’ho lasciato il post, non terminato, in attesa. Perché non amo molto “Le Giornate Per Qualcosa”. Mi paiono il preludio, per la nostra società, dell’incombere di un mondo distopico: non vorrei ritrovarmi nell’”Anno del pannolone per adulti Depend” – in bocca un gusto amaro di una profezia.[i]

Chiediamoci pure perché mai sia stato scelto di dedicare una giornata a questo fine quando sappiamo tutti benissimo che, per chi appartenga ad una categoria di persone socialmente <svantaggiate>, il fatto di vedersi dedicare, da parte di terzi, UNA giornata equivale a una sentenza di ineluttabilità.

Diverso è il caso di una giornata indetta dagli appartenenti alla categoria, nel contesto di una lotta che viene condotta con continuità e perseveranza in ogni altro giorno dell’anno; e che viene organizzata per rivendicare l’orgoglio per la propria appartenenza alla categoria; per farla uscire da una obbligata, imposta, marginalità, se non addirittura clandestinità; da un misconoscimento di identità e diritti che il giorno dedicato serve ad affermare – erga omnes.

da Wikipedia: Parata del Pride di S. Paolo del Brasile 2014

Vedi 8 Marzo. Vedi Gay Pride.

Qualcosa <per> potrà mai essere l’indire una Giornata, vogliamo dire di <propaganda>, a tema? Dovrebbe, se proprio, essere un’azione, qualcosa che agisca <sul> problema. Dovrebbe essere qualcosa che impegni innanzitutto i diretti interessati. In questo caso, qualcosa che impegni le donne, la cui consapevolezza è ancora quasi elitaria.

Dovrebbe essere qualcosa che impegni gli uomini: occorrono azioni da parte loro, la rivendicazione del proprio reciproco e identico diritto all’identità: di padri, mariti, compagni (di una donna, di un uomo, di chi si voglia); per il diritto a non venir socialmente obbligati a discriminare altri esseri umani – madri, figlie, sorelle, compagne, colleghe di lavoro – pena il rischiare a loro volta una condizione di marginalità sociale e, in ogni caso, uno svantaggio per la propria vita.

Una inconsapevolezza del problema appartiene, se non alla generalità, alla maggioranza dei maschi della specie? Direi di sì, se ai guerrieri del patriarcato sommiamo <gli indifferenti>, i falsi compagni di lotta che guardano dal di fuori; la massa degli  orgogliosi di sé che offrono un sostegno parolaio a un problema <non loro>.  

Una grave, se pur parziale, inconsapevolezza appartiene anche alla maggioranza delle donne? Direi, purtroppo, ancora di sì.

È illusorio pensare che una cultura millenaria, e planetaria, condivisa al di là delle diverse forme, dei diversi dispositivi che le connotano nelle diverse culture locali, svanisca come bruma mattutina nel giro di qualche generazione. Soprattutto, ciò non potrà accadere per somma di conquiste settoriali, pure importantissime, senza le quali neppure staremmo a parlarne – diritto al voto, accesso all’istruzione, alle professioni; diritti civili quali la parità giuridica nel matrimonio, il divorzio, la contraccezione, l’aborto,….

Un riequilibrio della condizione di vita di ogni essere umano potrà aversi solo attraverso un passaggio a nuovi modelli di organizzazione familiare, sociale ed economica; attraverso un cambiamento valoriale cui corrispondano i nuovi dispositivi che le donne hanno ottenuto per sé; ma che lasciano ancora intatta l’assunzione di base: la specie umana si riconosce nella sua forma al maschile; la femmina della specie è cosa a parte – come chi interpreta “fuori norma”, in modo difforme dai dispositivi prescritti dal patriarcato, la propria appartenenza al genere maschile e/o al genere femminile.

Ed ecco il conflitto irredimibile: nella realtà, sappiamo che la tartaruga non raggiungerà mai Achille; tuttavia, paradossalmente, ogni cambiamento si rivelerà illusorio.

Vi è, credo, una diffusa consapevolezza del fatto che, in un’economia di mercato, tanto più se globalizzata, nessuna società potrebbe ancora permettersi di “accudire” (sia pure come finzione) donne-principesse-da proteggere; madri, casalinghe, genere family day; donne che non siano adeguatamente alfabetizzate, e socialmente autonome, per fronteggiare le complessità.

Ci stanno arrivando pure culture che consideriamo profondamente diverse dalla nostra (ma che, per dire, non hanno alcuna difficoltà nell’intrattenere, con il nostro cosiddetto mondo occidentale, funzionali rapporti di partenariato economico: a dimostrazione del fatto che, nei fondamentali, sono la stessa cultura). Condividiamo, nel loro mondo e nel nostro, identici dispositivi culturali di base; dentro il sogno grottesco di poter cambiare tutto senza che niente (nella preminenza del potere maschile) cambi.

Mi pare tuttavia chiaro ed evidente che, se <le donne del mondo> – e non solo una loro parte minoritaria, e spesso privilegiata –  avessero consapevolezza dello status sociale loro assegnato; se non vi si identificassero profondamente, accogliendo, con ciò, il venir disumanizzate (cosa che accade anche dove ci sono leggi considerate adeguate alla loro tutela) il problema non si porrebbe: Non più. Non da molto tempo; Non da Mai.

Nello schema patriarcale classico, che domina nel mondo intero, è infatti sempre assegnato alla donna, attraverso la cura e l’educazione dei figli, il compito della conservazione e della trasmissione delle norme culturali. Sono dunque le donne a insegnare ai loro figli maschi, secondo tradizione, ad assumere il proprio ruolo di predominio; a insegnare alle figlie a sottomettervisi.

Il permanere, e aggravarsi, del fenomeno della violenza sulle donne nella società occidentale, in cui uomini e donne godono di una parità giuridica formale, è l’indicatore incontrovertibile del permanere sostanziale di uno stato di <servitù>; che giustifica la propensione di ogni donna a muoversi e comportarsi in un vissuto di costante allerta: per uscire di casa da sola la sera, per rientrarvi; per giustificare la scelta di agire una sessualità libera; nel relazionarsi (e spesso difendersi) nel mondo del lavoro; per, anche, dare forma alla propria relazione di coppia e al proprio ruolo nella famiglia.

Scelgo, a questo punto, la scappatoia dell’eccetera. Basti dire che , per una donna, il vasto mondo esterno presenta rischi ben riconosciuti, rispetto ai quali la risposta, culturalmente data, è: sii dimessa, restatene a casa, fatti proteggere (da un padre, un fratello, un compagno).

Senonché: nel nostro mondo, la punta dell’iceberg della violenza maschile sulle donne, che esita in lesioni gravi e in morte per femminicidio, si concreta proprio in casa, dove viene agita da parte del marito-compagno-padre dei figli; o, se all’esterno, comunque da parte di una persona con cui la donna ha convissuto, e ancora una volta, spesso da parte del padre dei suoi figli; con l’aggravante di una frequenza sconvolgente, tale da far considerare questo un rischio strutturale nella nostra società.

Il femminicidio è un evento che, di massima, non richiede, da parte delle forze di polizia, alcuna particolare capacità investigativa: l’autore è per lo più noto, basta andare a prenderlo.

Unica variante, mentre il corpo della vittima viene portato, senza fretta, senza più bisogno di sirene spiegate, all’obitorio, si sente, lancinante, la sirena di un’ambulanza che corre per trasportare all’ospedale l’assassino in fin di vita (più o meno).

John Stuart Mill e Harriet Taylor

Cos’è avvenuto? La vittima – la donna assassinata – lo ha ferito gravemente in un estremo tentativo di difesa? Eh no! Quando mai! La regola della legittima violenza difensiva, in questi casi, sembra non venir agita, quasi mai.

A coronamento della propria vigliaccheria il padre-marito-compagno-padrone avrà tentato il suicidio: avrà agito in modo da non dover rispondere dei propri atti. Non sempre riuscendoci: sembra che uccidere, in particolare una donna, sia più facile che uccidersi, guarda un po’.

E tralascio – ma quanto occorrerebbe dirne – il tema dei cosiddetti <danni collaterali>; il tema delle vite devastate dei figli, di famiglie che subiranno dolore e ricadute tali da coinvolgere anche la loro discendenza – e se ne parla troppo poco, se ne conosce troppo poco.

Tralascio perché non possiedo parole capaci di esprimere tale orrore. Provo a chiudere.

La discriminazione della donna, in tutto il mondo, è una costante di tutte le culture da che esiste il patriarcato – da che è nata, con l’agricoltura, con  il possesso della terra, trasmesso di padre in figlio, al maschile, la forma-famiglia che conosciamo.

Il seguito, e fino alla rivoluzione industriale, è composto da variazioni sul tema che hanno dato luogo a modelli di società solo superficialmente diverse, nei diversi periodi storici e nelle diverse culture locali.

Ed ecco: le discriminazioni, divenute oggi socio-economicamente disfunzionali, vengono a galla, in tutte le loro forme. I discriminati si organizzano. I conflitti esplodono. Culture obsolete, incongrue con i cambiamenti del modello socioeconomico predominante, confliggono (piaccia o meno) con il mondo reale. Ma si rifiutano di morire. Costituiscono, insieme alle Istituzioni, organismi viventi e hanno in sé la tendenza all’autoconservazione.

In tutto questo, la discriminazione della donna costituisce la matrice fondante il modello patriarcale; e le conquiste ottenute dal movimento femminista in tutto il mondo (conquiste, non va dimenticato, senza le quali la moderna società capitalista e i suoi modelli di produzione sarebbero già crollati su se stessi) hanno costituito il detonatore del cambiamento.

La discriminazione della donna costituisce infatti la pietra angolare che sostiene l’edificio del patriarcato; che, sulla discriminazione come metodo connaturato alla sua natura verticistica e gerarchica, si fonda.

Ogni altra battaglia, per ogni altra identità discriminata, che pure va condotta, ne deriva.

La battaglia femminista costituisce la chiave di volta per vincere la guerra contro ogni discriminazione, contro la discriminazione come metodo di organizzazione della vita: nel mentre, si vincono battaglie mai risolutive; utili a sfiancare l’avversario che si annida, culturalmente, in ognuno di noi.

Ben vengano, dunque, tutti gli uomini del mondo a fianco delle donne, per questa battaglia: ma non servirà fintantoché gli uomini lotteranno (si fa per dire) “per i diritti delle donne”, pensando di rinunciare eroicamente a proprie posizioni di forza in nome della giustizia.

Quando vedremo organizzazioni maschili lottare per sé; per chiedere e ottenere il rispetto necessario alla <loro> vita sociale, affettiva, lavorativa; per chiedere di poter svolgere la loro funzione di padri; di compagni di qualcuno/a; per poter riportare il lavoro alla sua natura di strumento; anche di realizzazione personale, certo, ma che, dunque, non li schiavizzi: solo allora potremo vedere non solo l’eliminazione della violenza sulle donne ma, a discesa, l’eliminazione di ogni discriminazione. Il cambiamento del modello. Il solo reale cambiamento attraverso il quale la guerra sarà vinta.

Nel frattempo: la guerra è fatta di battaglie, che devono essere vinte.


[i] Vedi: David Foster Wallace, “Infinite Jest”. Per chi non avesse letto questo libro, troverete qui una breve e impari recensione: https://lalibraiavirtuale.com/2015/06/29/gaudeamus-igitur/