È accaduto di nuovo. Lo avevo già scritto ad aprile scorso: “Non lo avevo previsto ma avrei dovuto. Si è realizzato nei fatti, senza esser stato progettato.” (qui)
Da tempo non scrivo: qui, dentro queste pagine. Mi sono ritrovata, in questo ottobre ormai trascorso, anche dentro giorni molto belli, e giorni indaffarati nel corso dei quali neppure ho potuto organizzare una piccola sosta adeguata per queste pagine: che ha dunque scelto di farsi da sé; e soprattutto di prolungarsi.
Mi accorgo che questo arresto ululava da tempo ai confini della mia tastiera, necessario per il mio tempo presente; nel tempo di queste pagine; nel tempo delle mie letture che, in qualche modo, si aggrovigliano nella relazione ai giorni che vivo, che viviamo.
Così, di giorno in giorno ho fatto mente locale al silenzio della mia scrittura, osservandolo attraverso una fattispecie di anomalo sguardo esterno; scoprendo il carattere di opportunità di questa specie di fermo immagine che ora mi interroga: suggerisce un cambiamento; impone il bisogno di trovare una nuova coerenza tra la lettura, la scrittura e quanto avviene intorno a me e in me.
Ed ecco: per riprendere, ciò che posso fare è concedermi uno spazio, oggi, qui, per pensieri a caso. Uno spazio per avviare, non so bene, un qualche cambio di rotta che apra una possibilità di parlare del mondo, del tempo che accoglie le mie/le nostre letture. Per metterne a fuoco, se possibile, la vitalità.
Anche solo per lasciare aperte domande.
Vivo, viviamo, credo, in questo tempo, una distonia nella falsa normalità dei nostri giorni; nel fingere le normali preoccupazioni per il domani, come pure i progetti, le soddisfazioni per l’oggi – qualcosa è andato bene, qualcosa è andato male, tra un piccolo covid, un malanno di stagione, un risultato sul lavoro che apre prospettive, un piccolo o grande fallimento.
Fingiamo tutti una quotidianità che ci accompagna, nelle consuetudini del nostro progetto di vita.
Nel frattempo, a Sharm el-Sheikh – un luogo a caso – si blatera, si recita, si finge; nel frattempo, e non solo in Ucraina, si bombarda, si distrugge, si minaccia, mentre intere grandi nazioni fingono che niente li riguardi – e vien da pensare che, almeno, non blaterano.
Nel frattempo, il pianeta, dal nostro punto di vista, crolla. Vivendo lui benissimo, nel caso, senza di noi. E senza le specie, animali e vegetali, che abbiamo annientato, purtroppo.
A casa nostra, per noi, le tragedie del quotidiano – nessuna piccola, proprio no – sono la norma, mentre siamo tutti – nel numero mi ci metto, ovvio, anch’io – impegnati a curarci del nostro ombelico, rimanendo certi dell’orizzonte su cui ogni nostro giorno (ci) accade, come fosse un fondale di teatro fisso – permanente e immutabile.
Nel mentre, leggiamo. Scriviamo. Altre vite, altre menti, altri pensieri si legano ai nostri, dando luogo a un altro io/noi, che andrà ad integrarsi, a fondersi, con il mio/nostro nuovo persistere.
Nel cambiamento, ogni nostro <io> permarrà sempre, dopotutto; noi, ognuno per sé, permarremo, tutti, ognuno se stesso.
Se non che, tutto questo – leggere, scrivere; vivere, e pure, ebbene sì, cambiare in conseguenza – pare, oggi, avvenire su di un fondale di scena del tutto mutato. Che mai più, vada come vada, costituirà una sia pure illusoria certezza. Assente ogni coerenza con la/le rappresentazioni in atto.
Potremmo ancora dire: niente di nuovo. Potremmo ripescare un sapere antico:
“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va.” – (Eraclito, Frammenti. 22 B 91 Diels-Kranz).
Ancora una volta: niente di nuovo?
Non proprio. Eraclito (535 a.C – 475 a.C) pare abbia scordato – noi tutti abbiamo scordato – di prendere in considerazione l’assunto per cui neppure l’esistenza di un fiume (o di qualsiasi altra <cosa-nel-tutto>) potrà essere data come certa, permanente, nel suo perpetuo divenire.
Possiamo concordare: ogni sostanza vive evolvendo e non esiste, nella vita, sosta, né permanenza alcuna.
Ma come è avvenuto che si sia potuto pensare <il mondo> come un <là fuori>, sostanzialmente immutabile e soprattutto a nostra disposizione? Come uno spazio, una scenografia entro cui tutto il nostro ubi consistam – la nostra recita, lo spettacolo che diamo della nostra esistenza superiore – avrebbe potuto darsi? Come fondamento certo?
Δὸς μοι ποῦ στῶ καὶ κινῶ τὴν γῆν
Da mihi ubi consistam, et terram coelumque movebo
Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo
Lasciando da parte l’attribuzione (Archimede? Si dice) le tre scritture hanno unicamente il senso di restituirci la ripetitività dell’assunto che trasciniamo con noi dentro lo scorrere dei millenni, nel mutamento, nel variare delle lingue, di scrittura in scrittura.
Date <a me>, a un <io> è stato detto: e in effetti, come potremmo affermare tale <io> senza la certezza di un punto d’appoggio, di un mondo stabile, dato, entro cui noi umani – immaginati/desiderati esterni a tutto ciò; in posizione di dominio <su> tutto ciò – si possa <agire>, se non avendo costituito noi stessi come esterni al mondo? Per poterlo <manovrare>, nella forma del dominio.
(E sarà pur necessario almeno fingere che sia ancora possibile farlo, nella forma di un modo, di tanti piccoli modi, di un immenso modo per chiedere scusa e risarcire il danno).
Com’era quella cosa nel Libro della Genesi?
26 Dio disse: «Facciamo l’uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine. Dominerà sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su quelli selvatici e su quelli che strisciano al suolo».
27 Dio creò l’uomo simile a sé, lo creò a immagine di Dio, maschio e femmina li creò.
28 Li benedisse con queste parole: «Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra. Governatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che si muovono sulla terra».
29 Dio disse:
«Vi do tutte le piante con il proprio seme, tutti gli alberi da frutta con il proprio seme. Così avrete il vostro cibo.
30 Tutti gli animali selvatici, tutti gli uccelli del cielo e tutti gli altri viventi che si muovono sulla terra mangeranno l’erba tenera». E così avvenne.
31 E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto bello.
Difficile rientrare da questo errore – umano, troppo umano? – che poi errore non è, se la parola biblica, nella sua assertività, ha, come ha, a che fare con un vagare – errare – dell’uomo alla ricerca, per l’appunto, di quell’ubi consistam unico baluardo all’horror vacui che lo coglie fronteggiando un altro uomo, o anche solo uno specchio; alla ricerca di una propria via per fronteggiare la paura della morte.
Meglio sarebbe riconoscere al testo biblico tutta la sua formidabile umanità – meglio ancora la sua umana mascolinità, fondante il patriarcato. Meglio ricercare, nel mito fondativo, un senso all’andare dell’uomo-maschio, erraticamente, incontro al proprio desiderio di <creare> una stabilità su cui fondare il proprio dominio – ponendosi come divinità, e stabilendo il proprio essere altro rispetto ad un mondo da Lui Stesso creato.
Inutile rilevare quanta paura vi sia in questa autodivinizzazione; quanto sgomento di fronte alla propria finitezza.
Provo a fermarmi; perché davvero non c’è limite all’incongruità del pensiero quando gli permettiamo di vagare.
E perché mai, come risposta a questi interrogativi-non-tali, a questa improbabile ricerca di senso – erratica, per l’appunto – mi sono balenati alla mente i versi di un poeta un po’ dimenticato, un po’ chansonnier, un po’ tutt’altro da ciò che mi è uscito fin qui dalle dita?
Il ricordo improvviso di alcune parole: “Fermati là, Là dove sei / Là dove sei stato altre volte / Fermati / Non muoverti / Non andartene…
Lo vedo: in questi versi di Jacques Prévert, titolo “Questo amore” la parola – <amore> – potrà venir estesa a cosignificante di <vita>, <natura>, forza universale che lega ogni cosa al tutto e fa del cambiamento la sola stabilità, la sola eternità possibile.
Se qualcuno avesse letto fino a questo punto, chiedo venia: mi serviva delirare un po’, per continuare a scrivere.
Mi prenderò, tuttavia, e solo forse, del tempo – per sospendere la scrittura, oppure per scrivere troppo parlando non solo di libri.
Continuerò tuttavia a raccontare dei miei libri; e a impilarli dentro gli scaffali del mio piccolo spazio-libreria.
Per chi ne avesse voglia, è certamente un ricordo di gioventù, lascio “Questo amore”, di Jacques Prévert
Questo amore / Così violento / Così fragile / Così tenero / Così disperato
Questo amore / Bello come il giorno / E cattivo come il tempo / Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero / Questo amore così bello / Così felice / Così gaio / E così beffardo
Tremante di paura come un bambino al buio
E così sicuro di sé / Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che impauriva gli altri / Che li faceva parlare / Che li faceva impallidire
Questo amore spiato / Perché noi lo spiavamo
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Perché noi l’abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Questo amore tutto intero / Ancora così vivo / E tutto soleggiato
E’ tuo
E’ mio
E’ stato quel che è stato
Questa cosa sempre nuova / E che non è mai cambiata
Vera come una pianta / Tremante come un uccello / Calda e viva come l’estate
Noi possiamo tutti e due / Andare e ritornare
Noi possiamo dimenticare / E quindi riaddormentarci
Risvegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora / Sognare la morte
Svegliarci sorridere e ridere / E ringiovanire
Il nostro amore è là / Testardo come un asino / Vivo come il desiderio / Crudele come la memoria / Sciocco come i rimpianti / Tenero come il ricordo / Freddo come il marmo / Bello come il giorno / Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo / E ci parla senza dir nulla
E io tremante l’ascolto / E grido / Grido per te / Grido per me / Ti supplico
Per te per me per tutti coloro che si amano / E che si sono amati
Sì io gli grido
Per te per me e per tutti gli altri / Che non conosco
Fermati là / Là dove sei / Là dove sei stato altre volte / Fermati / Non muoverti / Non andartene
Noi che siamo amati / Noi ti abbiamo dimenticato / Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra / Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre / E non importa dove / Dacci un segno di vita
Molto più tardi ai margini di un bosco / Nella foresta della memoria / Alzati subito / Tendici la mano
E salvaci.