Un mondo a misura altrui.

Carolina Criado Perez, “Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano”, Einaudi 2020

Mentre  il nuovo anno sembra orientarsi verso letture che chiedono  la comprensione del tempo che stiamo vivendo; mentre si affastellano temi, domande, mi resta da completare la carrellata dei libri  che hanno accompagnato il tempo in cui mi sono riposata leggendo, concedendomi una vacanza dalla scrittura. 

Ci sono stati libri diversi di cui mi piacerebbe raccontare qualcosa ma, come sempre accade, dovrò operare delle scelte.

Prenderò le mosse da una segnalazione; dall’ultimo libro di Paolo Rumiz – “Una voce dal profondo”, Feltrinelli 2023. Lo sto ancora leggendo. 

“L’autore sente una voce rauca che lo chiama dal fondo di un vulcano spento. Quel suono, simile a un lamento, gli ricorda che c’è una crepa che squarcia l’Italia dalla Sicilia al Friuli: quella dei terremoti. Rumiz decide di seguirla, di entrare “con la lampada di Aladino” nel mondo del Minotauro. (…)”

È un libro costituito da pagine che vanno lette lentamente, da arricchire attraverso brevi sospensioni della lettura per dar tempo alle tappe del viaggio di compiersi e al pensiero su ciò che incontriamo di sedimentarsi.

Non so ancora se ne racconterò. Rumiz è autore che amo molto, ma ho già tre suoi libri sugli scaffali e dunque, forse, sarà opportuno non eccedere nella proposta, pure se, per me, ogni suo libro vale una lettura, da ripetere.

Desidero invece, operando un cambio di tema, proporre per chi non lo avesse già letto, così come per il desiderio di un confronto con le sue molte lettrici e, spero, lettori, “Invisibili”, di Carolina Criado Perez, Einaudi 2019.

Possiamo definirlo un libro “di parte” anche se non lo è: il tema della posizione della donna nel mondo costituisce un interesse generale, e vitale, per la nostra specie. 

Criado Perez ci parla delle conseguenze concrete, per la vita di tutti i giorni, dell’invisibilità sociale femminile. Ci parla della scarsa fruibilità, da parte di noi donne, degli oggetti di uso quotidiano, degli strumenti che concretano il nostro vivere, il nostro lavoro, il nostro accesso alla socialità;  della scomodità ma finanche dei rischi insiti nell’utilizzo di strumenti pensati per la mano e per la fisiologia maschili. 

Ci parla della  risorsa “a costo zero” del lavoro di cura e di servizio alla famiglia e alla comunità svolto dalle donne che, con l’accesso di queste ultime al mondo del lavoro si è trasformata, in parte, in un solo apparente aumento della produttività quale rilevata dal  PIL; che, con l’accesso delle donne nella produzione <ufficiale> del lavoro <retribuito>, in precedenza appannaggio dell’invisibilità femminile domestica (capi di abbigliamento prêt-à-porter, cibi pronti, ecc.) “si è spostata dall’invisibile della dimensione privata del femminile alla dimensione che conta: la sfera pubblica dominata dai maschi.” 

L’autrice documenta con dati ONU risalenti al 2012, di cui possiamo ben considerare il valore perdurante:

La mancata misurazione dei servizi domestici non retribuiti è forse la madre di tutti i gender data gap. Il lavoro di cura non pagato corrisponde, secondo alcune stime, al cinquanta per cento del PIL dei Paesi ricchi; nei Paesi a basso reddito la quota sale fino all’ottanta per cento (…).” 

L’autrice ci dice delle conseguenze, per la salute delle donne, per la loro stessa vita, di una conoscenza e di prassi mediche modulate dalla ricerca svolta sull’organismo maschile; per l’assenza, di fatto, di una medicina di genere da cui, ed  è solo un esempio, deriva la frequenza con cui un infarto del miocardio può non venir diagnosticato per tempo nelle donne, presentando sintomi diversi da quelli ben noti nei maschi. 

Carolina Criado Perez (Wikipedia)

Carolina Criado Perez ha svolto una trattazione ampia, organica, capace di toccare, e approfondire, le varie aree in cui il fenomeno, in ogni contesto, si presenta; per poi venir catturato da una speciale sindrome di irrilevanza.

Si tratta di un libro di cui conoscevo l’esistenza, che tuttavia non avevo letto fino al momento in cui, a Natale, mi è stato regalato; ed è un libro che possiamo pure considerare datato, sulla via di divenire un “classico” (se non lo è già) ma la cui lettura avevo trascurato – perché? 

Accade che giunga notizia di un libro di grande interesse in un momento in cui il bisogno è rivolto ad altre letture. Si rinvia, e si scorda.

In questo caso c’è tuttavia, dentro la dimenticanza, qualcosa di più: il titolo dice di un tema non nuovo che, ad ogni riproposizione, si presenta nella forma, anche, di in-audito, nel senso di inconcepibile e, come tale, inascoltato; ci parla di un tema che si caratterizza nel fatto di venir regolarmente rimosso. 

La domanda sul perché questo accada non è dunque peregrina; merita di rimanere aperta, attendendo che le cause di quella che appare una rimozione intrinseca, connaturata al tema trattato, si rivelino, almeno in parte. 

Perché si assume che il prototipo del genere umano sia costituito dal maschio? Perché si assume che ciò che vale per lui, ciò che viene studiato per e su di lui, andrà bene anche per le donne: per il loro organismo,  per la loro costituzione fisica, per i loro bisogni fisiologici ma anche sociali?

È sintomatico il fatto che le donne stesse rimuovano questo dato – ovviamente compresi i medici che, se non sono più in assoluta prevalenza maschi, vivono, studiano ed operano tutti, maschi e femmine, dentro una bolla scientifica, dentro un mondo della conoscenza che identifica la specie umana nella unicità del maschile. 

Nota bene: se la cultura in cui ognuno di noi vive è, a grandi linee <una>, caratterizzante il gruppo di appartenenza; se i generi biologici necessari alla riproduzione sono <due>, femmina e maschio; se le appartenenze di genere sono multiple (femminile, maschile, non binarie); se le cose stanno così, interrompere la discriminazione del femminile, tratto che accomuna, dentro la struttura patriarcale, tutte le società umane da tempo immemore, è la chiave di volta per la possibilità di superare non solo l’invisibilità e la discriminazione del genere biologico donna, ma per la possibilità di superare <ogni> discriminazione, che sia orientata sull’appartenenza di genere o su altro – appartenenze religiose, pigmentazione della pelle, va a sapere cosa.

Il libro espone, a ben vedere, una gran quantità di situazioni esemplificative del problema che non ci colgono di sorpresa: le conoscevamo bene.

La sorpresa sta nel fatto che siano le donne stesse, oltre agli uomini, a rimuovere l’evidenza dei dati che descrivono un’organizzazione sociale (che si riscontra presente in ogni cultura, pur a vari gradi di problematicità) che cancella i bisogni femminili, la produzione, la presenza sociale, e finanche la salute delle donne.

Cose che si sanno bene, dunque; cose che vengono escluse dalla consapevolezza (quasi con un gesto di fastidio, un’alzatina di spalle per dire non ora, ci sono cose più importanti) per opera, anche, delle donne, in difficoltà a rilevare la specificità dei propri bisogni. 

Ci ritroviamo, tutte e tutti, di fronte ad uno scotoma universale: è difficile infatti chiedersi il perché di un fenomeno rispetto alla cui esistenza si è ciechi, nella fretta del vivere la quotidianità attraverso quelli che sono i necessari automatismi culturali.

La quarta di copertina di questo libro ci dice “(…) In una società costruita a somiglianza degli uomini, metà della popolazione, quella femminile, viene sistematicamente ignorata. A testimoniarlo la sconvolgente assenza di dati disponibili sui corpi, le abitudini e i bisogni femminili. Come nel caso degli smartphone, sviluppati in base alla misura delle mani degli uomini; o della temperatura media degli uffici, tarata sul metabolismo maschile; o della ricerca medica che esclude le donne dai test <per amore di semplificazione>. (…) Caroline Criado Perez dà luogo a un’indagine senza precedenti che ci mostra come il vuoto di dati di genere abbia creato un pregiudizio pervasivo e latente che ha un riverbero profondo, a volte persino fatale, sulla vita delle donne.

Dopodiché, la presentazione si conclude, con una frase in grassetto, tratta da una recensione del Financial Times che dice – evidenziazione mia: 

Un libro che <tutti i maschi> dovrebbero leggere

Eh sì! È come detto: implicito. Quantomeno per il Financial Times la scienza, ma anche la tecnologia – il <sapere> e il dar forma alla nostra vita – sono maschili e dunque nulla cambierà (si pensa) se non saranno <i maschi> a comprendere il problema.

La cosa non è così strana, in effetti. Tutti, uomini e donne, viviamo dentro una bolla culturale che prescrive i paradigmi attraverso i quali interpretiamo il mondo; e dunque, pure le donne, che vivono e operano, con i loro uomini e i loro bambini, dentro questa bolla, si ritroveranno a dover rimuovere il problema, pur se ne va del loro benessere; non di rado della loro salute e della loro stessa vita. 

Oggi, il mondo della scienza e della tecnica è ancora appannaggio in prevalenza del maschile-sociale (rappresentato anche da donne) e tuttavia non è più un mondo impenetrabile alla presenza del femminile-sociale (che può venir rappresentato anche da uomini); mentre il paradigma culturale che organizza le nostre società, a diversi livelli di problematicità, rimane sostanzialmente lo stesso per lei e per lui. 

Rimarrebbe da affrontare il tema del soffitto di cristallo, la cui rimozione, dovremmo pur dircelo, in buona sostanza sopravvive anche attraverso un “collaborazionismo” femminile interiorizzato: noi donne non viviamo in un mondo a parte; condividiamo necessariamente la cultura di appartenenza e, in forza del ruolo di cura assegnato, la trasmettiamo ai figli, soprattutto per la quota di invisibilità che mantiene ai nostri stessi occhi.  

Abbiamo, per nostra fortuna, una vista lunga. Rimanendo lunga anche la strada ancora da percorrere. 

Nota a margine:

“il “soffitto di cristallo” rispecchia il portato patriarcale della codificazione di “ruoli di genere”, a partire dai corrispondenti “stereotipi di genere”, cioè ricostruzioni acritiche e automatiche – apprese, veicolate e perpetuate nei processi di socializzazione – che associano agli individui un paniere convenzionale di inclinazioni, attributi o caratteristiche, in virtù della mera appartenenza a un genere.

L’adesione agli stereotipi di genere si traduce in pregiudizi di genere (il c.d. “gender bias”), ossia distorsioni cognitive e/o errori di valutazione, che vengono interiorizzati dagli individui come singoli – donne incluse – e recepiti dalla collettività, forgiando statiche e arbitrarie differenziazioni di ruolo sociale e professionale.” (qui)

Il problema sta, a monte, nel rischio che nel giorno ipotetico (ma vicino) in cui sfonderemo “il soffitto di cristallo” non sia il nostro maschile interiorizzato a farlo. 

La speranza sta nella possibilità che anche i nostri compagni maschi diano una possibilità al proprio femminile per guadagnare, con noi, una vita migliore: perché, diciamocelo, anche se a loro non pare, non fanno una vita degna, pagano a loro volta, e duramente, la falsa preminenza che il patriarcato assegna loro.

Davvero, non vorrei trovarmici, nonostante tutto.