Irène Némirovsky, I Cani e i lupi, Adelphi
Ada e Ben Sinner: due bambini, cugini, vivono nella parte bassa, povera, di una indefinita città dell’Ucraina. Sono i primi anni del Novecento; l’esperienza dei pogrom, la consapevolezza di una appartenenza che comporta estrema fatica nel cercare e trovare una vita sicura, il faticoso raggiungimento di un benessere la cui aleatorietà è insita nell’essere senza patria e senza appartenenza sentiti come propri dal popolo ebraico.
Il trasferimento a Parigi, una prima giovinezza alla ricerca di un posto per sé, ognuno dei due certo di un obiettivo. Per Ada, un amore impossibile da perseguire; per Ben, il benessere economico, la ricchezza. Per ambedue, l’antagonista è l’altra famiglia Sinner, parenti che vivono in una ricca casa della città alta: sono la famiglia di Harry, il grande amore dell’infanzia e il destino di vita di Ada.
La città bassa e la città alta: niente avrebbe potuto portare lo sguardo di Ada, di Ben, oltre la loro appartenenza, mentre ricchezza e povertà, il diverso rango sociale delle due famiglie Sinner, sono opposti che si incontrano: la speranza di ascesa economica per chi sta in basso, il timore, la certezza della caduta per chi sta in alto. In ogni caso lo stesso destino e l’alterità, sempre, il vincolo a ricadere e ricominciare.
Ada. L’appartenenza, fortemente identitaria, vincolante, al popolo ebraico, sono vissuti e criticamente espressi come forza e prigione. Ada vede se stessa scissa: al proprio interno, sente e odia quel sé identitario da cui vorrebbe fuggire; al di fuori di sé, nel percorso di ricerca del proprio posto nel mondo, conosce la propria inevitabile, e consapevolmente assunta, estraneità. E ne marca la specificità.
Sarà così nell’infanzia ucraina, nella vita povera della ‘città bassa’, sarà così nel trasferimento a Parigi, nel corso di una prima giovinezza da cui emergerà una donna il cui destino è compiuto: non nel raggiungimento di un punto di arrivo sociale ed economico ma nel suo sé, nella capacità di stare sulla propria strada, nel conoscerla.
“Contò sulle dita, come un bambino che enumera le sue ricchezze: ‘La pittura, il piccolo, il coraggio: con questo si può vivere, si può vivere benissimo”.
Irène Némirowski traccia i ritratti di personaggi che riescono ad unire lo stereotipo dell’ebreo, che lei usa a piene mani, con la costruzione di individualità uniche, che poco hanno a che fare con tale stereotipo o meglio, che vi hanno a che fare per ciò che, a modo proprio, in quanto individuo, ognuno è – e il lettore sente il disagio, è come se venisse scoperto nei propri pregiudizi, si trova a respingere, anche violentemente, l’assegnazione dello stereotipo che il testo propone e, ineluttabilmente, a doverlo accettare, a riconoscerlo in sé.
Le strade si dividono: Ben sceglie per sé, dentro i vincoli che ogni posizione nella vita pone, ciò che la sua identità gli può dare. Ada sceglie, e non è ininfluente che l’amore che conforma tutta la sua giovinezza e che ne determina la vita sia per un altro ebreo, per uno degli ‘emersi’ apparentemente irraggiungibili, figlio di una ricca borghesia che può solo illudersi di essere accolta, nella Francia della Terza Repubblica in cui l’antisemitismo covava quando non emergeva violentemente.
Il racconto dell’alterità dell’ebreo viene svolto togliendo qualsiasi riferimento all’epoca dei fatti narrati, sorvolando sulla guerra – solo incidentalmente l’autrice colloca nel 1914 il trasferimento a Parigi della famiglia Sinner: quello che accade al di fuori è irrilevante, la persecuzione e la marginalità degli ebrei sono vissuti come un universale che prescinde dal momento storico e dalle condizioni sociali.
“Era il mese di maggio del 1914. Durante i primi due anni di guerra, Israel (padre di Ada e cognato di zia Raissa, la madre di Ben) mandò regolarmente il denaro per il loro mantenimento.” Poi basta. Zia Raissa avvia un’attività di sarta: nient’altro viene concesso alla guerra, che non avviene nel mondo della comunità ebraica, che appartiene ad un’altra storia, non alla storia degli ebrei, che combattono in ogni tempo la propria guerra, cosignificante dell’identità.
“I cani e i lupi” è soprattutto un romanzo di formazione: Ada e Ben, alla fine, imboccheranno ognuno la propria strada.
C’è un malessere che questa lettura può portare, il malessere dell’incontro con l’ebreo che ognuno di noi porta dentro di sé (viene da qui il respingimento?), vale a dire l’incontro con il limite, quel preciso limite, non uno qualunque, che richiede di essere accolto perché vi possa essere vera libertà: storica, finita, nell’appartenere che ognuno di noi deve accogliere, pena la scissione e qualunque ne sia il costo.
C’è la testimonianza, critica, amara, dall’interno della comunità ebraica; c’è il tema dello stereotipo e dell’antisemitismo, denunciati nel mentre l’autrice stessa provocatoriamente li propone; c’è il percorso di crescita, l’esperienza universale della costruzione di un’identità e della ricerca di una propria strada, dentro i vincoli che, delimitando la libertà di ognuno, definiscono anche gli spazi entro cui esercitarla e renderla fattuale.