Michael Cunningham, “Le ore”, Tascabili Bompiani 2012, XIV Edizione
Cunningham scrive un libro che riecheggia, anche nello stile, come un omaggio, “La signora Dalloway”, il primo dei quattro grandi romanzi della produzione centrale di Virginia Woolf (seguiranno “Gita al faro”, “Le onde” e “Tra un atto e l’altro”, ultimo della sua vita, al termine della cui scrittura Virginia si suiciderà e che sarà pubblicato postumo).
Il libro inizia con la narrazione del suicidio di Virginia Woolf, immaginando/descrivendo il suo percorso al fiume per porre termine alla propria vita e il percorso del suo corpo/della sua consapevolezza, fino a raggiungere il proprio punto fermo, contro un pilone del ponte di Southease, sopra il quale transita un camion di soldati e passa una madre con un bambino. Il bambino gioca a lasciar cadere nell’acqua un ramoscello e a guardarlo scorrere nella corrente, saluta i soldati che passano, che salutano lui. E’ il 1941. C’è la guerra. Virginia è ora ferma, salda, e “assorbe tutto, il camion, i soldati, la madre e il bambino”.
E’ il prologo al racconto dello scorrere delle ore di una giornata di tre donne che, in anni diversi, vivono un momento di vita che porta riconoscimento e scelta, di sé e per sé.
Clarissa Vaughan è un’editrice newyorkese che, in una mattina di giugno, siamo alla fine del XX secolo, si avvia, come la sua omonima nel romanzo di V. Woolf, ad acquistare i fiori per il party che terrà, in onore di Richard, poeta e amico di una vita, ammalato di AIDS, che per lei ha coniato il soprannome Signora Dalloway.
Laura Brown, giovane moglie e madre, in attesa del suo secondo figlio, in una mattina del 1949, giorno di compleanno del marito, si attarda ad alzarsi dal letto e inizia la lettura di “La signora Dalloway”.
La terza donna è Virginia Woolf, alle prese con la scrittura di “La signora Dalloway”.
Le storie si richiamano, ognuna comporta il riferimento all’altra mentre le protagoniste sono impegnate in una normale giornata, di particolare solo l’impegno ad organizzare una festa (nel caso di Virginia a scrivere di una signora che organizza una festa), o cucinare una torta, per il compleanno o per un ricevimento in onore del marito o dell’uomo importante della loro vita.
Virginia Woolf sceglie un percorso per la protagonista del suo romanzo. Nel 1923, scrive e attraverso il suo personaggio, cerca la vita, il suo male, il suo senso e la sceglie. Nel romanzo sarà un altro a morire in luogo di lei, Septimus, che Clarissa Dalloway incontra solo brevemente, che ‘non conosce’ – V. Woolf, nel corso della stesura del romanzo, aveva preso in considerazione la morte, alla fine del ricevimento, della signora Dalloway per poi costruire un altro suo doppio, non casualmente un quasi sconosciuto. Attraverso la scrittura, fino a “Tra un atto e l’altro”, Virginia lotterà e sceglierà la vita, con cedimenti mai totali, mai davvero. Poi chiuderà, dopo aver scritto il suo ultimo romanzo, pubblicato postumo: “La finestra era tutta un cielo senza colore. La casa aveva perduto ogni difesa. C’era la notte prima che fossero costruite le strade o le case. Era la notte che gli abitanti delle caverne avevano osservato da qualche luogo in alto, tra le rocce”. E questa conclusione sta, tutta intera, nel Prologo, mentre il romanzo racconta l’invenzione di tre giornate di faticosa conferma della vita.
Laura Brown sceglierà – dopo una giornata particolare, una parentesi fuori casa, una breve fuga nel non luogo di un hotel – di riprendere la sua vita. La lettura, la possibilità di rifugiarsi in un altrove/libro, di cercarsi, consentono un rientro. Il recupero di un senso. Anche quello di una torta mal riuscita.
Clarissa Vaughan. Il nomignolo Signora D. che l’amico Richard, l’amore di un altro tempo, le ha incollato addosso, fa confondere il suo personaggio in un intrecciarsi di rimandi. E Laura, la sposa-madre-casalinga, che aspetta un bambino? C’è un richiamo tra la lettura, la scrittura e la gestazione di un figlio? Laura pensa al marito che “avrebbe potuto avere chiunque, qualsiasi ornamento da vincitore avesse voluto chiedere “ma invece “aveva baciato corteggiato e chiesto in moglie la sorella del suo migliore amico: quella che era un topo da biblioteca, con gli occhi troppo vicini e un naso da antica romana, che non era mai stata corteggiata, che era sempre stata lasciata sola a leggere” (Difficile non evocare il ritratto di Virginia Woolf, non riandare alla storia della sua giovinezza).
Gli spostamenti di identità di tre donne che scelgono faticosamente di vivere. Quando la giornata si chiude Laura pensa “Si, è probabilmente così che si deve sentire un fantasma. E’ come leggere – la stessa sensazione di conoscere le persone, gli ambienti, le situazioni, senza interpretare nessuna parte in particolare, tranne quella dell’osservatore obbediente.” La realtà la riprende e lei la riconferma: “Allora – dice Dan dopo un po’ – vieni a letto? Sì – dice lei”.
Vive Clarissa. Non sarà lei a morire, come non era morta la signora Dalloway, e gli spostamenti dei personaggi si intrecciano e si confondono.
Vive Virginia, per ora. La morte di Virginia apre il romanzo con la scrittura come appiglio di salvezza nel percorso di costruzione del suo romanzo.
Nella sua lettera di commiato al marito Leonard, Virginia scrive “Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto siamo stati noi”. Saranno le parole con cui Richard saluterà la Signora D.