Una ragazza, una piccola città, molte piccole follie

un-segno-invisibile-e-mio_letture_di_luglioAimée Bender, Un segno invisibile e mio, Beat, 2011

Terminata la rilettura di questo romanzo ed eccomi qui. Perplessa? non proprio, non è questo; un po’ a disagio, sì, forse. Il romanzo è interessante. Aimée Bender è una scrittrice dotata di una voce originalissima. Da dove, allora, il disagio? Credo provenga da me, solo indotto dal romanzo, la cui lettura mi porta a interrogarmi su quanto poco io sappia notare ciò che mi circonda. E che il romanzo mi invita a vedere.

D’accordo, ho iniziato questa recensione in modo anomalo, ma trattandosi di questo libro, non riesco ad evitarlo.

C’è una ragazza, Mona Gray, che viene messa fuori casa dai genitori – in realtà dalla madre – secondo cui è tempo che la ragazza conquisti una propria autonomia. Riluttante, Mona si trova un alloggio, si trova lavoro come insegnante di matematica in una scuola primaria e di lì a poco, al compimento del ventesimo anno, come regalo per il proprio compleanno, acquista un’ascia.

C’è la storia delle ossessioni che caratterizzano il comportamento di Mona: c’è un rituale che la porta/costringe a una particolare ossessiva gestualità; c’è il suo amore per i numeri, che diventano a loro volta parte di un sistema di significati finalizzato a proteggersi/proteggere le persone che ama.

Il suo rapporto con i numeri farà di lei una originale insegnante di matematica per i suoi piccoli allievi, una seconda classe elementare le cui vicende verranno seguite, fino a elevare ad un ruolo di coprotagonista una bambina, Lisa Venus, nella cui storia Mona in certo senso può rispecchiarsi;

C’è la storia familiare di Mona: una coppia di genitori segnata dal comportamento del padre, vittima di un disagio psichico (o di una malattia? Pare di no) che porta la figlia a temere per la sua vita e cercare, attraverso le sue ossessioni, i rituali e le fantasie, di salvarlo.

Ci sono altri personaggi, ognuno dei quali, e uno in particolare, è storia a sé e insieme significante nel percorso di Mona verso l’autonomia.

C’è il rapporto con un collega, che la aiuterà a imboccare un percorso di uscita dalle sue ossessioni, a causa delle quali si saranno creati seri problemi nel suo mondo di insegnante e con i suoi ragazzi.

La storia funziona, anzi, le storie, che si intrecciano e vengono organizzate secondo giusti tempi e rispetto dei diversi piani, ricongiungendosi e integrandosi fino a formare, con la vicenda della protagonista, uno sfondo di personaggi e un contesto di ambiente che rendono il tutto ricco e ben articolato.

Intorno a Mona c’è un’intera comunità di persone dal comportamento altrettanto, e ognuno a modo suo, divergente, dove pare tutti collaborino nel consentire a Mona di sviluppare il proprio percorso, affrontare le proprie difficoltà e così evolvere verso una soluzione dei propri problemi.

Il risultato darà il quadro di un mondo in cui le ossessioni, le paure, la negazione delle une e delle altre, i rituali, con cui Mona, ma non lei sola, si protegge dalla vita, e cerca di proteggere le persone che le sono vicine, risultano pedissequamente normali dentro il contesto dato.

Se Mona ha l’abitudine di tamburellare compulsivamente con le dita su oggetti di legno, ciò non risulta ‘strano’ in un paese dove è considerato un normale cittadino tale George O’Mazzi che, in occasione dell’inaugurazione dell’ospedale del luogo – enorme costruzione interamente in vetro, di dodici piani, orgoglio del paese – “si schiacciò apposta il braccio dentro la portiera dell’automobile perché voleva l’onore di essere il primo a passare la notte nel nuovo palazzo azzurro.

Tanto più se, come poi avvenne (…) il braccio infortunato, già indebolito e danneggiato in precedenza dai proiettili, in conseguenza della botta con la portiera si infettò, e glielo dovettero amputare. Una volta guarito, il signor O’Mazzi portò l’arto amputato al vetraio del paese, che lo sigillò dentro un parallelepipedo dello stesso vetro azzurro, in modo che potesse venir orgogliosamente esposto sopra il caminetto, e vi incise le parole PRIMO INTERVENTO CHIRURGICO.”

Così, mentre seguiamo Mona, e le sue peripezie, mentre cerca di costruirsi una vita adulta, mentre cerca di proteggersi e proteggere chi le sta intorno e di cui si prende cura, la ragazza non ci risulta strana, né malata, né… evitiamo termini impropri; non nel suo contesto dove tutti lo sono, e verrebbe da parafrasare l’incipit dell’Anna Karenina e dire che tutte le comunità felici sono simili fra loro, ogni comunità infelice è infelice a modo suo, dovendo tuttavia concludere che non ci sono comunità felici, ma ci sono comunità che sanno prendersi cura della propria gente.

E viene alla mente, per opposizione, l’incipit di Harry Potter e la Pietra Filosofale: Mr e Mrs Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante.”: ed ecco che la ‘non normalità’ e l’isolamento dagli altri sono assodati.

E l’incipit di questo romanzo? Una sorpresa: sono due. Il romanzo inizia con unC’era una volta un regno…”, inizia con il racconto di una fiaba. E con la stessa fiaba (quasi: con una differenza finale di grande respiro e serenità) il romanzo si chiude.

Nel mezzo, “storie di ordinaria follia” (richiamiamo anche Bukowski?) il cui incipit, con la voce della protagonista, è “Il giorno del mio ventesimo compleanno mi sono comprata un’ascia”. E tutto segue.

In realtà, niente di truculento. Tutto il tono del romanzo è, incredibilmente, la misura.