
Nei miei desideri, i temi di questa chiacchierata dovevano riguardare, con una breve esposizione della nuova scorta di letture in programma, anche un breve resoconto sul “Carta Carbone Festival letterario”, dal tema “Autobiografia e dintorni”, che si è svolto a Treviso nel corso dell’ultimo fine settimana, organizzato dall’ ”Associazione Culturale Nina Vola”.
Purtroppo mi è impossibile parlarne: perché non c’ero; perché ho potuto assistere solo a un incontro con Duccio Demetrio, che parlava dell’autobiografia, interessantissimo e molto partecipato; perché ero lontana da Treviso e sarei tornata solo a cose avvenute e dunque ho potuto solamente seguirne la cronaca, i servizi online, e constatare con grande soddisfazione che è stato un evento perfetto, che avrà sicuramente un seguito, che ha premiato le bravissime donne dell’Associazione Nina Vola e regalato a Treviso un avvio di nuova vita, di vita antica, magari, qualcosa che, a chi ha un po’ d’anni, ricorda la nostra ‘Piccola Atene’, come era chiamata un tempo questa città.
Venerdì, il giorno che si avviava il festival, prima dell’appuntamento per ascoltare Duccio Demetrio, e dovendo il sabato mattina partire per una breve assenza, c’è scappata anche la necessaria gita in libreria.
Il bottino: Agota Kristof, “Trilogia della città di K”. Se ci riesco, sarà la prossima recensione; e dico se ci riesco perché, chi lo ha letto lo sa e mi piacerebbe molto parlarne, è un libro che riempie e disorienta, è un pugno allo stomaco e un libro di cui è impossibile interrompere la lettura, un libro assoluto, per ognuno, per chi ha un’età e per chi non ce l’ha, per chi ci trova cose che crede di riconoscere e altre che aprono dubbi e interrogativi, un libro che ognuno può persino creare modellandolo a sé e al proprio mondo.
Poi: ebbene sì, Kawabata Yasunari, mi sono decisa, leggerò “Il paese delle nevi”. E poi, un bel romanzo di Siri Hustvedt, “L’estate senza uomini”.
Si sono aggiunti “Potere e sopravvivenza” di Elias Canetti, Adelphi 2004; “Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere” di Franco Lo Piparo, Donzelli Editore 2014; e, naturalmente, “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora” di Duccio Demetrio, edito da Mimesis Accademia del silenzio 2012.
Ma il programma di questa chiacchierata prevedeva anche, come avevo preannunciato nell’ultima recensione, su “Tutti i santi” di Javier Marias, il racconto di una storia particolare che viene recuperata a partire da quel romanzo:
“La storia del Regno di Redonda”
Redonda è un’isola, poco più di uno scoglio, che si trova nel mar dei Caraibi e appartiene, oggi, allo stato di Antigua e Barbuda (Commonwealth Britannico). Disabitata, nessuno se ne era occupato fino alla fine dell’800 quando l’Inghilterra decise di annettersela per quel po’ di interesse economico che poteva derivare dalla raccolta del guano.
Verso la fine del XIX secolo fu acquistata, perché vi era stato scoperto un giacimento di qualcosa, da un banchiere, tale Matthew Dowdy Shiell che, alla nascita del proprio figlio, chiese alla regina Vittoria d’Inghilterra, o forse decise da sé, il diritto di proclamarsi Re di Redonda e trasmettere al figlio il titolo. L’Inghilterra accettò, o non perse mai tempo a discuterne, che è lo stesso.
Ora, il figlio del banchiere, Matthew Philip Shiel (con una sola ‘l’ finale, per sua scelta) re di Redonda con il nome di Re Felipe I fu scrittore di fantascienza abbastanza noto, e lasciò in eredità il titolo proprio a Terence Ian Fitton Amstrong, meglio noto come John Gawsworth, che accettò prendendo il nome di Re Juan I.
Storia, già a questo punto, interessante, non è vero? Ancora di più se si pensa che, nonostante John Gawsworth abbia almeno tentato di vendere in più occasioni il titolo, date le condizioni economiche in cui versava, alla fine lo trasmise, nel 1970, con i diritti sulle proprie opere, al proprio editore, John Wynne-Tyson che, nel 1997, abdicò a favore dello scrittore spagnolo Javier Marias, trasmettendogli il titolo di Re di Redonda come riconoscimento per aver egli, con il racconto della vita e delle opere di John Gawsworth in “Tutte le anime”, recuperato la vicenda e il valore dello scrittore e avergli restituito il giusto riconoscimento.
Javier Marìas, divenuto Re di Redonda, ha fondato un premio letterario e una casa editrice di nome “Reino de Redonda”, ed ha assegnato titoli nobiliari a diversi autori e uomini di cultura. Tra questi, allo scrittore italiano Umberto Eco che può ora fregiarsi del titolo di “Duca dell’isola del giorno prima”.
Così, il Regno di Redonda può oggi vantare una esistenza particolarissima, certo priva di rappresentanza ONU, così come di un reale territorio e di una popolazione, ma di tutto rispetto.
Ecco dunque una storia che certo molti conoscono già, di cui mi erano giunte eco, probabilmente al momento in cui la stampa ha sicuramente registrato la “nomina a duca” di Umberto Eco; ma non ne conoscevo la storia nei dettagli e trovo che, oltre ai grandi meriti letterari, la realizzazione del Regno di Redonda, come Nazione Letteraria tra le nazioni del mondo, sia qualcosa che va ascritto a grande merito di Javier Marìas.
Peraltro Javier Marìas ha raccontato questa storia nel suo libro “Nera schiena del tempo”: un interessante libro, che racconta il farsi di “Tutte le anime”, sul crinale tra la realtà dei suoi anni a Oxford e la fantasia che fa di quel libro un romanzo e non un’autobiografia; o l’invenzione di aspetti di fantasia che hanno permesso all’autore di raccontare, sotto mentite spoglie, persone e personaggi reali, così come di inserire interessanti pezzi di realtà, restituendo alla vita della memoria un personaggio della cultura come John Gawsworth.
Ho consumato a iosa, temo, lo spazio e la pazienza di chi legge per raccontare qualcosa che quasi sicuramente qualunque lettore di Javier Marìas conosceva già, ma che ho trovato molto bello e soprattutto che, per una conoscenza di Javier Marìas, anche come autore, doveva essere risaputo. Non sarà la mia voce a fare la differenza ma, sapete com’è, vale come il vecchio ‘la calunnia è un venticello’ (gli opposti si toccano sempre) e l’altrettanto vecchio buon passaparola. Funzionano. <Bisogna> essere pettegoli quando c’è qualcosa di buono (e non riservato) da dire su qualcuno. Senza tener conto del fatto che spettegolare è un indubbio piacere, che sta alla base del piacere di raccontare, su cui si fonda il piacere di scrivere.