Domani nella battaglia pensa a me

Javier Marìas, “Domani nella battaglia pensa a me”, Traduzione di Glauco Felici, Einaudi 2000

11 settembre 2022. Mentre i fatti ucraini tengono la prima pagina dei telegiornali, alternandosi con i riti per la morte della Regina Elisabetta II, e riducono persino la nostra miserrima campagna elettorale a terza notizia; mentre la data dell’11 settembre, nella sua ventunesima ricorrenza passa quasi inosservata, la morte di Javier Marìas, è stata, nello stesso giorno, poco più di un sottotitolo che scorreva, e oggi, forse, già non scorrerà più, nel sottopancia degli schermi a telegiornale in corso.

Javier Marìas, all’età di settant’anni, ci ha lasciati. Era ricoverato da tempo, polmonite bilaterale da Covid; sembrava migliorare. E invece no.

È, anche questa, la morte di un Re: e pure se il Regno letterario di Redonda non fa notizia (qui), e non cambia i destini del mondo, perché  – lo dico senza ironia alcuna – non dovremmo prenderlo sul serio? Solo perché si tratta di un gioco?

Lo è, certo – e proprio in quanto tale, è una cosa seria; molto seria: nessuna differenza sostanziale dal Casato di Windsor se non per il trattarsi di un gioco cui, in questo caso, si dedicano in pochi. E tuttavia: Il re è morto, viva il Re! Chi succederà a Xavier I° di Redonda?

Non so se Javier Marìas abbia provveduto a nominare il re o la regina che dovrà succedergli, ma certo sarebbe importante che il gioco continuasse – con l’attività della Casa Editrice “Reino de Redonda” e del Premio letterario associato (se ancora esiste). E forse i tanti appartenenti alla nobiltà letteraria di Redonda (mancando purtroppo Umberto Eco, nominato da Xavier I “Duca dell’isola del giorno prima”) dovrebbero riunirsi, come, che so, Consiglio della Corona; e nominare un successore. 

Una bella favola non può morire. 

Da qualche anno l’isola di Redonda – disabitata, in termini umani, da molto tempo ma non da prima che l’intervento umano provocasse gravi danni introducendo specie non autoctone che hanno devastato la flora e la fauna dell’isola – è stata fatta segno di interesse da parte di grandi organizzazioni ecologiste che hanno operato per ripristinare le originali condizioni ambientali.

Sono state fatte rivivere così, con ottimi risultati inattesi, la flora e la fauna di quel territorio – quasi un documento del fatto che SI PUÒ fare qualcosa per la nostra terra devastata: e mi chiedo se anche l’essere, l’isola di Redonda, un Reame Letterario non possa aver aiutato quantomeno a far memoria di quei tre chilometri quadrati di scoglio vulcanico nel Mar delle Antille (qui).

Javier Marìas: un autore che, nel silenzio di una vita senza clamore, ci ha regalato l’ascolto dell’altro da noi; il contatto con il nostro pensiero e le nostre emozioni; con l’amore, e con la sua compagna morte, attraverso un linguaggio potente, capace di avvolgere il lettore e trattenerlo nel contatto con la propria voce interiore – spesso anche con effetti disturbanti, va detto, e tuttavia con parole impossibili da tacitare, dopo aver iniziato a dar loro ascolto.

La notizia mi ha riportato – anche se ho sempre evitato di proporre questo libro perché: come fare, impossibile!  – a riprendere tra le mani  “Domani nella battaglia pensa a me”, quel magnifico libro che chiude il percorso che si apre con “Tutte le anime” (qui), per proseguire con “Un cuore così bianco”.

Come non respingere la notizia di una morte – assurda nel suo essere persino comune, di questi tempi – ritrovandosi a dover fronteggiare la sua capacità affabulatoria; davanti ad una morte che si presenta, nel libro e nella realtà, nell’estrema vicinanza – è la sua, la tua, morte, non c’è scampo; ad ascoltare un soliloquio che dentro una distanza emotiva inutilmente ricercata e allontanata, cattura e respinge, sfiora e seduce con lo strumento di un’ironia a difesa che no, non basta a difendere il lettore, e il protagonista, piccolo uomo in cui non è gradevole, non proprio, rispecchiarsi ma è pure impossibile non farlo.

Ti ritrovi a rappresentarti la morte e la sua normalità; gli agganci alla vita vale a dire alla morte – la tua – degli orpelli che ti rendono chi sei e sono nulla, proprio come te, e come chi resta e se ne libera.

Che fare, se non – aperto il libro, imperativo l’incipit e – come fare? Se quell’incipit continua e continua e non  ti lascia più andare?

Fate voi: io posso solo abbandonarmi, a spezzoni, alle parole di Marìas, ad un linguaggio altrimenti indicibile, da fuggire; e in cui restare presi senza via di scampo.

E a quel titolo; e alla sua fintamente nascosta ferocia: nella sua gentilezza di scrittura Marìas è, sempre, feroce, e quel titolo solo accennato, che interrompe la frase, volutamente equivoco, lo è particolarmente – nella scelta di eliminare ciò che segue, l’intero della frase che Shakespeare mette in bocca alla Regina Anna: la maledizione incontrovertibile su Riccardo III che l’ha fatta uccidere.

Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”. (Shakespeare, Riccardo III)

La storia (si fa per dire).

C’è questo tale, invitato a cena, implicito il seguito atteso, da una giovane donna il cui marito è assente, a Londra per lavoro; una collega, madre di un bambino di due anni che finalmente dorme, dopo aver tenuto d’occhio la coppia impropria più a lungo del previsto. 

C’è questo tale, dicevo, e c’è lei che, proprio nel mentre i due stanno iniziano a togliersi i vestiti l’un l’altro si sente improvvisamente male, rifiuta la chiamata di un medico – ora mi passa, tienimi stretta, ti prego – e muore.

E lui si trova con una donna, conosciuta da poco, mezza svestita e MORTA – di cui gli rimane tra le mani un imbarazzante reggiseno – mentre un bambino piccolo dorme nella stanza accanto, e mentre lui deve, deve assolutamente, è chiaro, andarsene da lì ma c’è il bambino. E inizia il flusso di coscienza, il flusso di pensiero a difesa, e…

La storia continua – flussi di coscienza diversi. Occhi che osservano, e vedono, altri, sé, vedono noi preda di noi stessi e del nostro pensiero insaputo.

Posso solo, non so fare altro – e, nel contempo, non so impedirmi di farlo – se non proporre, a chi ha letto questo libro per ricordare insieme; e a chi non lo ha ancora letto perché forse lo leggerà; se non proporre, dicevo, scorrendo le pagine iniziali e avanti e avanti – e imponendomi di arrestarmi – spezzoni del pensiero, della magia delle parole, dell’incatenamento che portano con sé mentre le ritroviamo dentro di noi: siamo brutte persone? Anche se, dopotutto, siamo semplicemente noi, umani; e c’è qualcosa di ridicolo, di tremendo e di normale, difficile dire, nella situazione. Ecco tutto. Impossibile, per me, fare altro; impossibile non farlo.

Isola di Redonda, da Nationalgeographic.it

“Molte volte si nascondono i fatti o le circostanze: i vivi e quello che muore – se ha il tempo di accorgersene – spesso provano vergogna per la forma della morte possibile e per le sue apparenze, e anche per la causa (…) morire con addosso solo i pedalini, o dal barbiere con un grande bavaglino, al postribolo o dal dentista (…) morire rasati a metà, con una guancia coperta di schiuma e la barba diseguale (…).”

Ma <quella> è una morte orrenda, si dice di certe morti, si dice anche, sghignazzando…perché si parla di un nemico finalmente estinto o di qualcuno distante, qualcuno che ci ha fatto uno sgarbo o che abita nel passato da molto tempo, (…).”

“A volte per suscitare l’ilarità basta che il morto sia uno sconosciuto, della cui disgrazia inevitabilmente ridicola leggiamo sui giornali, poveretto, si dice in preda alle risate, la morte come rappresentazione o come spettacolo di cui si dà notizia (…). C’è sempre un grado di irrealtà in ciò di cui ci informano, come se niente accadesse mai per intero, nemmeno quello che capita a noi e che non dimentichiamo.”

“Il mio spazzolino da denti comprato appena oggi pomeriggio dovrebbe finire nella spazzatura perché l’ho già usato, e tutti i piccoli oggetti che ognuno accumula lungo tutta una vita andranno nella spazzatura uno per uno o forse verranno distribuiti in giro, e sono infiniti, è incredibile ciò che ciascuno tiene per sé (…).”

“(…) ciò che aveva senso e valore lo perde in un solo momento e tutte le cose che mi appartengono rimangono rigide, di colpo incapaci di rivelare il loro passato e la loro origine; e qualcuno le ammonticchierà e prima di incartarle o forse di infilarle dentro i sacchetti di plastica può darsi che le mie sorelle o le mie amiche decidano di tenere qualcosa come ricordo o per usarla, (…). 

E ci saranno altre cose che nessuno vorrà perché servono soltanto a me – le mie pinzette, o la mia colonia già aperta, i miei indumenti intimi e il mio accappatoio e la mia spugna, le mie scarpe… le mie creme e le mie medicine, i miei occhiali da sole, i miei quaderni e le mie schede e i miei ritagli e tanti libri che leggo solo io, la mia collezione di conchiglie e i miei dischi vecchi, il pupazzo che conservo sin da quando ero bambina, il mio leoncino -, e forse bisognerà pagare perché la portino via, non ci sono più straccivendoli avidi o compiacenti come nella mia infanzia, che non rifiutavano niente e percorrevano le strade intralciando il traffico allora paziente con carri trainati da mule (…)  e man mano che la pila di oggetti si faceva più alta, l’ondeggiare del carro tirato da una sola e affaticata mula diventava più accentuato – un dondolio – e sembrava che tutto il bottino di rifiuti – ghiacciaie fuori uso e cartoni e scatole, un tappeto arrotolato e una sedia sgangherata e rotta – dovesse crollare a ogni passo trascinando con sé la bambina zingara che invariabilmente coronava la pila dandole equilibrio, come se fosse l’emblema o la Vergine degli straccivendoli (…)”

La storia si risolverà come dovuto (diciamo così), e Marìas ci regalerà un Epilogo in cui, ancora, dirci: di noi che leggiamo, di noi che scriviamo, del come e del perché. Pacatamente: nel suo stile, ferocemente gentile.

Javier Marìas resterà con noi.