Nâzim Hikmet, “Gran bella cosa è vivere, mei cari”, Mondadori 2010
Il titolo di questo libro (titolo originale: «Eh, vivere è una bella cosa, fratello”) contiene tutta la narrazione di una storia di vita in cui il poeta, attraverso, anche, “io” multipli racconta non tanto la propria storia personale – anche, certo, ed è importante – ma soprattutto l’infinità di emozioni che i giorni, i luoghi, gli amici, gli ideali, l’amore, portano con sé.
E racconta, senza mai dirlo, parlando invece delle peripezie della propria vita di militante comunista, di oppositore di un regime, quello turco di Moustafà Kemal Pascià, cui inizialmente aveva aderito, di come sia impossibile essere uno solo, non fondersi con la vita degli altri, con la vita di chi vive con noi e del mondo che ci contiene.
Hikmet non ci presenta idee, o letture personali, o interpretazioni del mondo. Meglio: non le giustifica, non le argomenta. E’ un poeta e fa sì che fatti, emozioni, luoghi, semplicemente siano, e dunque non possano che racchiudere bellezza, e non possano che mostrare come, tutto sommato, alla fine della giostra, la vita sia un assoluto, qualcosa di irrinunciabile, anche nel suo essere messa a rischio, e magari proprio per ciò, per l’obbligo che contiene in sé di, anche, essere messa a frutto: una somma di esperienze, emozioni, felici e dolorose, disperate mai, tali da rendere il vivere cosignificante dell’amare (una donna, gli uomini e le loro storie, gli amici, la bellezza di un paesaggio) e far raggiungere alla vita un vertice di valore che conterrà qualsiasi fatica e sofferenza e difficoltà. E perché mi vien da scrivere, anche, un vertice di ‘allegria’?
Non so. Nel racconto di Hikmet, a ben vedere, si incontrano sofferenze davvero grandi, si incontra il pericolo, il carcere, si incontra la morte: e se Hikmet mai rappresenta la disperazione, che sembra non compatibile con la vita, una antitesi che neppure in quanto tale è possibile porre, certo non racconta vite facili, non importa se si tratti della sua o di quella altrui, perché anche gli altri, tutti, e tutto ciò che ci circonda, sono la nostra.
E vedo che ne scrivo come se, in questo romanzo, perché di un romanzo si tratta, Hikmet parlasse di sé, in forma autobiografica: e non è così. Questa infatti non è, è solo ‘quasi’, una autobiografia. Certo, per lo più (ma non solo) la voce narrante è una prima persona, è la voce un giovane uomo, di nome Ahmet la cui storia di vita è quella di Hikmet, rappresentata tuttavia anche dentro le storie di altri personaggi, primo fra tutti l’amico Ismail. E la voce narrante cambia, il narratore diventa esterno, le voci si diversificano.
Dentro queste pagine c’è l’amore, c’è il fatto che una biografia non basta a contenere la vita di un uomo perché – meglio usare una sua celebre poesia “Il più bello dei mari/è quello che non navigammo./Il più bello dei nostri figli/non è ancora cresciuto./I più belli dei nostri giorni/non li abbiamo ancora vissuti./E quello/che vorrei dirti di più bello/non te l’ho ancora detto”.
Tutta la storia si muove nel periodo tra le due grandi guerre del ‘900, dentro un mondo e dentro fatti che oggi, a meno di cent’anni di distanza e mentre stiamo ancora tirando i fili e pagando le conseguenze delle storie di allora, tendiamo a dimenticare.
Che anni sono stati quelli! Ci coglie impreparati, credo, il porre mente a quanto sono stati complessi e a quanto sono state intrecciate le vite di popolazioni che, oggi, fingiamo di sentire, vedere, come fossero, e fossero sempre state, diverse e separate.
Hikmet racconta i suoi anni giovanili, il periodo tra le due guerre, ma alle sue spalle ci sono, come un saputo che non importa narrare, la lenta e devastante caduta dell’Impero Ottomano, le guerre che le potenze occidentali portarono al morente impero, dalla cosiddetta campagna di Libia che lo stato italiano nel 1912 condusse strappando la Tripolitania e la Cirenaica all’Impero, prendendosi le isole del Dodecaneso; alle guerre turco-balcaniche e alla guerra greco-turca con la quale Mustafà Kemal Pascià volle recuperare al nascente stato turco l’Anatolia e la Tracia, Smirne, perduta con i trattati di pace seguiti alla Grande Guerra e alla sconfitta degli Imperi Centrali. E naturalmente c’è stato il sogno della Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Lenin, la sua morte.
C’è tutto quel mondo dietro un racconto che si svolge, come romanzo, nel corso di quaranta giorni in cui il protagonista, Ahmet, vivrà rinchiuso in una baracca in cui trascorrere il periodo di incubazione di un possibile contagio per essere stato morso da una cane forse affetto da rabbia.
Ahmet, rinchiuso, solo per la maggior parte della giornata, rivive la propria e l’altrui storia mentre, assistito dall’amico Ismail, osserva i supposti e temuti sintomi avendo affidato ad Ismail il compito di sparargli nel caso gli effetti della rabbia si fossero manifestati. Mentre vive quei giorni, preda della paura della malattia e delle sue conseguenze, del dover scegliere di perdere la vita, cui si tiene ben aggrappato, segue e partecipa alle attività dei compagni, pensa e ricorda.
Racconterà, ripenserà, così, la sua infanzia, i suoi anni da studente a Mosca, le lotte, i viaggi, il suo grande amore per la russa Anuška, rivivrà e farà vivere gli amici, ragazzi e ragazze, Ismail, Neriman, Marusa, Ziya, Kerim, Si-Ya-U.
La storia si chiuderà con un salto temporale. E’, forse, il 1961 – 1962; Hikmet, che qui, solo qui, all’ultima pagina, appare e parla, riceve la visita dei vecchi amici che “(…) non sono invecchiati. Hanno la stessa età di quando li ho visti l’ultima volta. Si-Ya-U è ancora innamorato di Anuška. Ahmet è ancora geloso di Si-Ya-U”.
E, presentandosi sulla scena, porrà un sigillo sulla propria vita, regalando ai suoi amici il permanere della loro giovinezza: “Hanno la stessa età dell’ultima volta che li ho incontrati, ma io sono sulla sessantina. Potessi vivere cinque anni ancora…”.