Una vita di amore e di lotta

Nazim Hikmet 1901 - 1963Terminata la rilettura, estemporanea e un po’ frenetica, di “Il signore degli Anelli”, mi sono accorta che, a seguito di “Sul Grappa dopo la vittoria” non ero in grado di leggere il libro che avevo in attesa, vale a dire “Come cavalli che dormono in piedi”, di Paolo Rumiz, una storia che mi avrebbe ricondotto dentro l’”inutile strage” della Grande Guerra, per usare le parole di papa Benedetto XV.

Ho, dunque, preso in mano l’altro libro in attesa, il romanzo di Elio Bartolini, “Chi abita la villa”, e ho iniziato una lettura che, tuttavia – sono bastate poche pagine – non sono riuscita a cogliere; per ora, quel libro mi ha proprio respinta.

E mi si è presentato, come una sorpresa, pronto ad interrompere il programma di lettura che mi ero proposta, il romanzo (quasi) autobiografico di Nâzim Hikmet “Gran bella cosa vivere, miei cari.

Un titolo che risponde, evidentemente, al rifiuto di reimmergermi nella guerra, così come al riemergere di un autore che da tempo non frequentavo ma di cui, poco tempo fa, ho postato sulla mia pagina facebook una bella poesia, ripropostami dal blog internopoesia.com. che fa iniziare con bei versi ogni giornata di chi lo segue. E, tuttavia, un autore che nella lotta e nella guerra ha consumato la propria vita.

Nâzim Hikmet (Salonicco 1902 – Mosca 1963) è un poeta, oltre che drammaturgo e narratore, un grande della poesia turca e non solo. Il mio incontro con questo autore data dal 2003, quando ho letto, pubblicato da Mondadori, “Il nuvolo innamorato” (sempre il mio amore per le favole), una piccola splendida raccolta di fiabe che Hikmet scrisse basandosi su vecchi racconti della nonna e su racconti tradizionali della sua terra; la stessa casa editrice pubblicò poi, nel 2010, il romanzo “Gran bella cosa è vivere, miei cari”, in precedenza inedito in Italia e che allora non lessi, cui seguì la pubblicazione di “Poesie d’amore” (2012) e “Poesie d’amore e di lotta” (2013) che costituiscono una lettura che non si compie di getto, si assapora lentamente, si prende e si lascia.

Ora vorrei dunque proporre il romanzo di Hikmet, che sottende sia un’autobiografia, sia una rivisitazione del periodo storico tra le due grandi guerre del ‘900 in cui è trascorsa la vita di questo scrittore, sia la sua poesia, che ne intride la prosa attraverso uno sguardo che, anche nei momenti più duri della vita, sua come dei suoi personaggi, non perde di vista la bellezza della terra, delle stagioni, delle persone, dell’amore, di tutto ciò che porterà a pronunciare la bella e intensa frase che dà titolo all’opera.

Nâzim Hikmet, turco naturalizzato polacco, che ha trascorso a Mosca l’ultima parte della sua vita, perseguitato politico nella sua Turchia, ha trascorso una vita difficile, la cui parte centrale si è consumata in carcere, ha sperimentato la tortura, alle cui conseguenze sulla sua salute è stata dovuta anche la sua morte prematura; ma nella sua scrittura, sia essa poesia, siano favole, sia questo romanzo, zampilla la gioia di vivere e il dare senso ad una vita di cui ha saputo fare una cosa bella, ricca, utile e carica di significato.

Oggi, avendo appena finito di leggere il suo “Gran bella cosa è vivere, miei cari”, l’aver ritrovato questo autore mi ricollega a quanto avevo scritto nel post che ho chiamato “Il nostro pensiero e i nostri libri” – e gli aspetti di questo collegamento sono molti mentre il fatto non finisce di stupirmi.

Il tema del momento giusto per leggere un libro assume ancora una volta la forma del momento in cui un libro, un autore, ci si propongono apparentemente da sé, il momento in cui, nello scegliere una lettura, prendiamo atto, inconsapevolmente, di come sia impossibile estraniarci da tutto ciò che, del mondo, si riverbera nel nostro quotidiano.

E oggi si riverbera la guerra, ci contorna da ogni parte e non c’è un altrove. E c’è il bisogno di capire un mondo, quel “vicino” oriente cui avevamo fatto cenno, i confini della nostra Europa, tutti quei mondi che stanno sul nostro pianerottolo.

Ho respinto un libro, un contatto, se vogliamo chiamarlo così, che ho sentito, in questo momento, troppo diretto sulle ansie che tutti viviamo, più o meno consapevoli, essendo appena emersa da un incontro che pure era stato bello, che si era concluso con una grande serenità che forse, ecco, non desideravo annullare, forse è stato questo.

A quanto pare, ho recuperato un altro libro solo illusoriamente in grado di regalarmi distanza: certo, nel libro di Malaguti eravamo qui, su montagne che sono anche mie, dentro una lingua familiare, che odora di casa e di affetti; ora sono tornata ad ascoltare voci di un mondo diverso dal mio, che tuttavia è anche qui, che ci è necessario capire anche attraverso la sua storia, più recente, meno recente, comunque sempre intrecciata, ora e allora, alla nostra.

Mi pare di essere rientrata in quel percorso di cui ho scritto, brevemente – è un argomento che mi è difficile mettere a tema – quando cercavo di restituire la lettura de “Il grande gioco” di Opkirk, o dei rifugiati del Moussa Dagh, ma anche le storie di Venezia e di Ragusa, altri secoli, e mi trovavo a scorrere carte geografiche o a recuperare confuse notizie sui califfati, sull’Impero Ottomano, cercando (scusate se recupero ciò che ho scritto nel settembre scorso ma fatico davvero a trovare parole per questo pensiero) nella lettura, nei romanzi, in storie di tempi diversi, una via per comprendere il tempo in cui vivo e le cose che succedono. Qui ed oggi. In questo momento”. (Settembre: è (quasi) tempo di migrare verso altre letture).

Ora il libro è terminato. Lo sto rileggendo, ed è un piacere. Poi ne racconterò, anticipando unicamente che, davvero, “Gran bella cosa è vivere, miei cari”.