
Strana figura femminile, a ben guardare, quella di Karen Christentze Dinesen, baronessa von Blixen-Finecke. Strana perché unisce, in modo anomalo, i vantaggi di un’appartenenza sociale alla borghesia ricca e colta, che le permise studi, esperienze di vita, una gioventù carica di opportunità, a una vita in qualche modo fuori da quel mondo, pur senza smettere di farne parte, una vita che rimase, nella sua eccezionalità, per così dire appartata.
Il suo rango sociale le consentì, o lei con forza si permise, scelte di vita quali non erano normalmente concesse ad una donna, ad una ragazza la cui infanzia e prima giovinezza erano trascorse nella protetta ed esclusiva tenuta di Rungsted, un piccolo paese a trenta chilometri da Copenhagen.
Figlia di una famiglia di ricchi proprietari terrieri, la tragedia familiare la raggiunse presto; aveva solo dieci anni quando il padre, cui era molto affezionata, si suicidò. Un comportamento, al tempo, disonorevole, che venne nascosto ai figli, ma del quale sicuramente la famiglia, la moglie e i cinque figli, dovette portare il peso sociale. E chissà, forse ne è derivata proprio la libertà che ha segnato la vita di Karen, una libertà conseguente allo stigma sociale che la famiglia, peraltro, fu in grado, per le sue risorse e la sua collocazione, di fronteggiare.
Sono pensieri in libertà, del genere che si costruisce proprio per poi demolirli; ma che sorgono, inevitabili, a fronte di una storia personale tanto particolare.
Già nel 1903, a diciotto anni, Karen inizia gli studi all’Accademica delle Belle Arti di Copenhagen, e nel 1910 studia a Parigi, giovane donna venticinquenne, in giro per l’Europa in anni nei quali le ragazze non avevano, di regola, né pieno accesso agli studi né grande autonomia personale al di fuori della protezione di un luogo una famiglia e/o un marito.
Ma erano gli anni della Belle Époque, della automobili e del volo, anni la cui storia è profondamente divisa dall’ottica con cui la si guarda. Anni di grande sviluppo, in cui nasce, crescendo in modo parassitario, la modernità, che avrebbe dato luogo, nel giro di pochi anni, alle tragedie di un secolo che, a tutt’oggi, sembra non si riesca a chiudere; anni rappresentati dall’ubriacatura esaltata per un futuro ricco e felice, ben rappresentato nelle sue contraddizioni dai quadri e dalle affiches di Henry de Toulouse Lautrec la cui morte precoce, nel 1901, avviene nell’anno in cui Pellizza da Volpedo dipinge la stessa epoca ne “Il Quarto Stato”.
Karen partirà per l’Africa, dove, appena arrivata, sposa il cugino-fidanzato, barone Bror von Blixen-Finecke e avvia con lui un’azienda per la coltivazione del caffè, in una zona che risulterà inadatta, troppo elevata, per tale coltura.
Un matrimonio incomprensibile. Karen non amava Bror; era innamorata, non ricambiata, del fratello gemello di lui, Hans. E il loro fu uno strano disgraziato matrimonio; un marito incapace di gestire l’azienda, che nel tempo di un anno, ammalato di sifilide, contagiò la moglie – e i conseguenti problemi di salute compromisero e condizionarono tutta la vita di lei – che tuttavia, finito nel 1925 con il divorzio, ebbe anche qualche caratteristica di una buona amicizia, almeno nei primi tempi, tra due persone totalmente incompatibili tra loro. Quantomeno in apparenza. Tra le opere pubblicate postume della Blixen si trova infatti (e non ho ancora letto ma necessariamente non mancherò) un interessante libricino, “Il matrimonio moderno”, Adelphi 1986, che lei scrisse indirizzandolo al fratello Thomas. Pubblicato dopo la sua morte, forse cambia l’apparente civiltà dei rapporti tra Karen e Bror.
Gli anni in Kenya di Karen Blixen, così splendidamente narrati in “La mia Africa”, dal 1914 al 1931 (dunque solo diciassette anni, non pochi, non una vita) lasciarono il segno. Il fallimento economico costrinse infine Karen alla vendita dell’azienda e della sua casa, dove aveva vissuto circondata dalle sue porcellane, dalla sua argenteria, dal suo mobilio, creando una anomala oasi europea nel bel mezzo del territorio abitato dai kikuyu, e nel bel mezzo di una civiltà cui lei seppe relazionarsi con occhi privi di pregiudizi, che a sua volta la accolse, in piena epoca coloniale. In uno strano modo, sembra quasi che la sua capacità di mantenere, in quella sua casa, il ‘proprio’ ambiente, di non rinunciare alla ‘propria’ cultura, si sia sposato bene con la analoga capacità di rispettare quella altrui, fino al punto di riconoscerla superiore.
Gli anni africani sono stati anche quelli della sua relazione, anche questa incerta, instabile, con Denis Finch Hatton – suo coetaneo, appartenente alla piccola nobiltà inglese, esperto cacciatore, aviatore – ma che sicuramente è stata per lei significativa e fonte di arricchimento, conclusasi con la morte di lui, in un incidente aereo.
Karen tornò a Rungsted, dedicandosi alla scrittura. Aveva già scritto, e pubblicato, utilizzando pseudonimi. Tra l’altro, data 1923 proprio “Il matrimonio moderno”, pur non essendo stato questo piccolo libro, al tempo, destinato alla pubblicazione.
Ma la sua produzione importante si avviò con i racconti di “Sette storie gotiche” (1934) che firmò con il nome di Isak Dinesen. Nel 1937 uscì “La mia Africa”.
Della sua produzione vanno segnalati, in particolare, il racconto “Il pranzo di Babette”, inserito nel volume “Capricci del destino”, da cui, come da “La mia Africa”, fu tratto un bellissimo film che ha una particolare e rara caratteristica: il libro e il film si rispecchiano perfettamente, mentre “La mia Africa” è, giustamente, dichiarato <tratto da> il libro. Film bellissimo, pluripremiato, ha anche il merito di aver fatto conoscere Karen Blixen al grande pubblico.
La sua forse ultima opera, pubblicata nel 1963, dopo la sua morte avvenuta nel 1961, è il bellissimo “Ehrengard”, da cui anche è stato tratto un film, forse poco noto.
Oggi la casa di Rungsted, immersa in un bellissimo parco, ospita il Museo Karen Blixen; costituisce una meta turistica interessante sia per la bellezza dei luoghi sia per la visita ai ricordi che ci restituiscono, per il tramite degli oggetti (dotati di vita più lunga di quella delle persone che li hanno resi vivi e carichi di significato), la storia, la personalità, di una grande scrittrice la cui opera, pur nel suo valore in sé, resta in qualche modo legata agli eventi della sua vita.
Karen Blixen è sepolta nel parco di questa sua casa, che la rappresenta, che è stata l’ambiente, il centro di gravità della sua vita segnata dalla perdita; nonostante gli anni africani siano rimasti per lei il luogo del cuore. E lei, a sua volta, è rimasta nella memoria dei luoghi dove è vissuta. Anche la sua casa in Kenia è, oggi, un museo a lei dedicato.
Forse sta proprio a Rungsted la risposta; forse il suo mal d’Africa ha potuto esprimersi e risolversi in forza delle inestirpabili, profonde radici, che Karen Blixen ebbe in quella sua casa di Danimarca, carica di storia e di appartenenza, che le permettevano di muoversi, vivere, appropriarsi di altri ambienti senza perdere il proprio centro di gravità.