Jean-Pierre Vernant, “Pandora, la prima donna”, Einaudi 2008
Un libriccino, cinquanta pagine, arricchite da bei disegni, che si leggono tuttavia in un tempo meno breve di quanto la dimensione potrebbe far pensare; pagine scorrevoli, una lettura piacevole, che porta a fermarsi, a sorridere, a distrarsi nel pensiero delle conseguenze, a sogghignare e, perché no, tirare dei bei sospiri mentre si affastellano alla mente i molti significati e le infinite implicazioni, non banali, di una storiella amena, o che tale potrebbe sembrare ma non è. Non per nulla, da quasi tremila anni viene ripresa, e ripensata, e conserva un senso, e anche qualcosa, anzi molto, di più.
Volevo proporre questo libretto insieme ad un altro, un saggio altrettanto breve, nelle dimensioni, e altrettanto esteso nelle ‘conseguenze’ per una riflessione capace di diramarsi senza fine. Un’accoppiata fonte di intenso piacere. Ma dovrò limitarmi a parlare del primo, temo. Le piccole dimensioni nascondono una grande ricchezza.
Il titolo del secondo, tuttavia, costituisce già un’indicazione: “La filosofia o l’arte di chiudere il becco alle donne”. Autore: Frédéric Pagès, filosofo, giornalista, collaboratore del settimanale satirico francese Le Canard enchâiné. Edito da ‘il melangolo’, 2010. Il contenuto riserva spunti e temi inesplorati, volendo, anche dallo stesso autore, attraverso il potere sul testo che compete ad ogni lettore.
Due libriccini che, a ben guardare, almeno in apparenza non hanno a che fare l’uno con l’altro. Autori e temi diversi, che tuttavia finiscono nello stesso territorio, a parlare di <uomini e donne>, della loro vita condivisa, dei modi e dei significati della loro relazione. In ambedue si parla, si narra, di qualcosa che, attraverso i millenni, pone di fronte a un richiamo, a un imperativo che, dentro percorsi diversi, dice – o nega, si sforza di negare – la stessa cosa. Che sfugge. Che è sempre là. Una loro lettura in sequenza regala momenti di grande ricchezza. E di un buonumore che, se proprio volessimo prendere in parola i contenuti, non dovrebbe aver luogo.
Nel mito di Pandora, la domanda, fondamentale, sull’origine, è di quelle che, nel quotidiano, nessuno si pone e che, tuttavia, non si può ignorare; una domanda che sta dentro di noi, per sua natura irrisolta. E Jean-Pierre Vernant – Incipit: “Oggi ti racconto di Pandora: la prima donna” – la pone. “Perché due sessi?”
Ed ecco il mito, deputato a fornire una riposta, dopo che l’uomo – il maschio – l’avrà trasformata nella forma: “da dove viene la donna?“
La parte femminile dell’umanità, nel mito, apparentemente non si pone interrogativi, limitandosi ad <esserci>. Da parte femminile non sembra esistere alcuna domanda di senso, né mitopoiesi alcuna. Per la donna, sembra che il senso del proprio esserci sia originario. Una specie di certezza che dice “Io sono la fonte”. La donna sembra sapere di sé, del proprio costituire l‘origine.
Non così l’uomo. Che, nel caso dei greci, non porrà una domanda su di sé, bensì sull’origine della donna. Dopodiché, l’esistenza del femminile diventerà, anche per lui, un a-priori, da cui solo potrà derivare, e perpetuarsi, la sua vita: che l’uomo si contorca sul problema, ci ragioni su o meno, il dato non cambia. Al massimo, e non è poco, lui potrà fare in modo, e lo farà, di rendere la vita difficile a lei, complicando e rendendo dolorosa la propria al di là di quanto il dolore, nella vita di ambedue, sia parte costituente e ineliminabile della vita comune.
Jean-Pierre Vernant ci racconta dunque il mito di Pandora, la prima donna, costruita, voluta, da Zeus per: che cosa? Per vendicarsi, burlarsi, di Prometeo che aveva cercato, per amore degli uomini, di sostituirsi a lui nel definire quale dovesse essere, nell’ordine del tutto, il loro posto?
La fonte: Esiodo. L’epoca: VII secolo a. C. – e vorrà pur dire qualcosa se, ad oggi, il mito e le sue implicazioni permangono nella memoria della nostra cultura. E se altre culture detengono miti diversi che propongono uno stesso ordine dei significati del maschile e del femminile e della loro interdipendenza.
La storia è nota, e narra che, al tempo in cui regnava Crono, padre di Zeus, in quella che viene detta età dell’oro, gli uomini vivevano beati, immortali, insieme agli dei.
“Tutti gli umani, ‘anthropoi’, sono allora ‘andrei’, maschi. Non ci sono donne, non ci sono vere e proprie nascite e quindi nessuna morte. (…) gli uomini passano il tempo con gli dei, mescolati a loro, nei banchetti a mangiare senza aver dovuto prima cucinare, ad ascoltare i canti delle Muse e i versi dei poeti. Una vita idilliaca”.
Eppure, tra gli dei, il femminile c’è, eccome – ci sono le dee, le muse. Ci sono nascite; dopotutto, Crono ebbe figli, tra cui Zeus, che lo spodestò, vedi un po’. Molto umano. Ma non c’è la morte. La forza del mito sta nel consentire la contraddizione, com-prenderla e, per tale via, determinarne il senso.
Sia come sia, la storia è curiosa e va letta, ma volendo riassumere, Zeus, dopo aver conquistato il comando, decide di dare un ordinamento al cosmo, assegnando ad ogni dio e dea un ambito in cui essere sovrano. Ad Afrodite gli affari di cuore e di sesso, ad Ares la guerra, e così via.
Poi, Zeus vede, tra gli dei, aggirarsi questi strani esseri di poco conto, gli uomini. Non sono dei. Non si capisce bene cosa ci stiano a fare. Decide dunque di tracciare una linea che segni la differenza e incarica il Titano Prometeo – colui che tutto vede e prevede, per il quale non sono segrete le conseguenze delle azioni, degli uomini o degli dei – di indicarla.
E Prometeo provvede, in modo diverso da come Zeus avrebbe voluto: egli è infatti ‘philanthropos’, ama gli uomini e desidera dare loro una buona vita.
Prometeo farà dunque in modo che gli uomini possano disporre della carne, regolando a loro favore il rito che permetterà loro di cibarsene avendo prima reso agli dei quanto di loro spettanza; Prometeo con l’inganno fornirà agli uomini il fuoco, rubandolo a Zeus, perché possano cuocere il cibo.

Zeus, che pure tutto conosceva, finge di adirarsi e traduce in danno per gli uomini questi doni. Cibandosi della carne, gli uomini dovranno conoscere non solo la fame, ma la necessità, in precedenza sconosciuta, di procurarsi il cibo; e dovendosi nutrire di cibo deperibile, a loro volta saranno condannati a morire.
Gli uomini sono mangiatori di pane, e Zeus nasconderà loro il grano nella terra, che d’ora in poi dovranno arare, seminare, sperando nel raccolto, per potersi sfamare. Anche il fuoco, in precedenza a disposizione, donato da Zeus, dovrà essere nascosto, conservato sotto la cenere, per poter essere usato.
Ora, il fuoco, il grano, non sono più doni gratuiti degli dei immortali; sono divenuti beni che richiedono una tecnica per essere disponibili, lavoro e fatica, essendo destinati comunque al ciclo di vita e morte.
La beffa finale è nota. Zeus incarica Efesto di fabbricare, per farne dono agli uomini, un “malanno meraviglioso”. Ed Efesto costruirà un fantoccio, a somiglianza di una parthenos, una fanciulla, divina, bellissima e seducente, meravigliosamente agghindata. Il dio Ermes le darà forza e voce: ma infonderà in lei il temperamento di una cagna e l’anima di un bugiardo e ladro.
Zeus inviò Pandora, il bellissimo malanno, cagna e bugiarda, agli uomini, decretando che, essendo divenuti mortali, per mezzo suo avrebbero potuto riacquistare, nei figli, una forma di ‘immortalità. Ma la dotò di un vaso, ben chiuso, ordinandole di recarsi alla casa di Epimeteo, il fratello sciocco di Prometeo, incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azione, e ordinandole di aprirlo, per un breve momento, appena entrata nella casa. L’incauto Epimeteo, affascinato, accoglierà la donna e Pandora eseguirà l’ordine di Zeus.
Dal vaso, carico di tutti i mali che da lì in poi affliggeranno l’umanità, aperto e richiuso velocemente, non tutto è uscito. Qualcosa è rimasto sul fondo. Resterà, giù, nascosta, Elpis, la speranza, a fare tutta la differenza.
Ma questo è un ben misero sunto. E il racconto che ci regala Vernant è di quelli preziosi. Da cui ricavare sempre una diversa, inaspettata lungimiranza. Godendo, come solo il mito permette di fare, tutte le contraddizioni da cui sia possibile ricavare, o rileggere, un senso per la vita. La domanda, da qui in poi, cambierà, divenendo: “Chi siamo noi uomini? E perché non possiamo essere uomini se insieme a noi non ci sono anche le donne?”
E’ in arrivo la filosofia. Alla prossima con “L’arte di chiudere il becco alle donne“.