Christa Wolf, «Premesse a Cassandra», edizioni e/o 1985
Quattro lezioni su come nasce un racconto
Traduzione e Note a cura di Anita Raja
È impossibile giovare a questa cupa umanità;
nella maggior parte dei casi non restò che tacere,
per non essere considerati folli come Cassandra
quando profetizzammo ciò che ormai era alle porte
(Goethe, 1794)
«Signore e Signori, questa iniziativa ha per titolo ‘Lezioni di poetica’, ma ve lo dico subito: non ho una poetica da offrirvi».
Christa Wolf ci propone di seguirla «in un viaggio, in senso sia letterale che metaforico» cui è stata condotta da una ‘parola’, «Cassandra», divenuta da tempo, per lei, un interrogativo che chiedeva di essere decifrato e che la portava a costruire un percorso nella direzione di un contenuto e di una poetica che confliggevano, esigendo una propria forma, non convenzionale, per essere espressi. Da qui l’invito a divenire testimoni di come il suo lavoro si sarebbe svolto – si era svolto – nella ricerca dei modi in cui nasce e cresce un percorso narrativo.
E sarà una lettura avvincente, molto piacevole – e infine dura, impietosa, che non farà sconti, comunque si scelga di pensare il tema posto.
Subito, in Premessa, viene dato un punto, che sarà importante tenere a mente e riprendere, alla fine. Scrive Christa Wolf:
«(…) non esiste poetica, né può esisterne una, capace di evitare che la viva esperienza di innumerevoli soggetti sia uccisa e sepolta in oggetti d’arte.»
Da cui una domanda, complessa, su ciò che una cultura fa quando traduce sé in «opere», con ciò, forse, ponendo una pietra tombale su se stessa, a sigillo di qualcosa che, nel momento in cui viene rappresentato, è già divenuto altro, è monumento, nel senso etimologico di questa parola: un ricordo, ma anche un monito. Perché ciò che si ricorda è, per definizione, qualcosa che sta dietro di noi, che abbiamo lasciato. Che ha dato vita a qualcos’altro? Di questo, pare che l’autrice affermi, dovremmo essere consapevoli quando ci avviciniamo a un’opera d’arte, aver presente il monito che contiene per il nostro presente.
E inizia la bellezza di questo testo, nei molti sensi che la parola può portare con sé, come archetipo che si tramanda e, come araba fenice, rinasce a nuova vita ad ogni nuovo tempo che incontra.
Inizia il resoconto di un viaggio in Grecia – è il marzo del 1980 – con i suoi inconvenienti, la narratrice non li trascurerà – e sarà piacevole seguirla come si segue una conversazione, un racconto, che immagino tra donne anche se…ma davvero non può essere così? C’è una donna che racconta, a donne, e certo anche ad uomini. Mi pare di poter accogliere la chiusura della quarta di copertina che dice di una narrazione della lotta delle donne e degli uomini per diventare soggetti. Ma la voce che parla è, senza dubbio, femminile – e forse l’equivoco può nascere solo dal fatto che solitamente, agli uomini viene tolta la specificità della voce: un discorso lungo, ci sarà occasione.
Un disguido della compagnia aerea, perso l’aereo, una giornata non prevista da trascorrere a Berlino, l’albergo: occasione per iniziare, in tranquillità, la lettura dell’Orestea.
Ed è subito Cassandra, “degna di fede (…) in questo dramma l’unica a conoscere se stessa”, che chiede, impone di essere seguita nel suo insopportabile vaticinio, nella parola impudica che rivelava i segreti nascosti della casa degli Atridi.
«Ecco, guardate! I testimoni! Rosso di sangue!
Figli che piangono! Lattanti!
Il banchetto del macello!
Ecco! La carne arrosto
Che il padre… divora!»
Mentre il coro, che conosce i fatti, di assassinio, di cannibalismo, da cui nasce l’incubo di Cassandra, la zittisce, non vuole che si evochi il passato della propria stirpe; meno che mai volendo ascoltare da una straniera un vaticinio di morte che attende il loro re, rientrato in patria vincitore.
Ad Atene, la voce di Cassandra sembrerà spegnersi. «Lo spirito del luogo si ritraeva».
«Persino il possente arco della costa in cui giaceva il porto. A bella posta invocai il suo nome dentro di me: Pireo Pireo – nessun’eco.»
«Bene in fondo, ai piedi del bastione del tempio di Atena Nike, il santuario della dea della terra, Gea, sepolto, celato, coperto, invisibile a noi che siamo venuti dopo. In vece sua la copia della statua colossale in avorio e oro di Pallade Atena del celebre Fidia, armata d’elmo, scudo, giavellotto e corazza, nella sinistra la statuetta in formato ridotto della dea della vittoria Nike, possente e fredda. Senza madre. Sorta con scudo e giavellotto dal capo del padre Zeus, come un cattivo pensiero»
Le due prime lezioni narrano il viaggio, tra aspetti turistici, burocratici, e aspetti di incontro, conoscenza, confronto con una storia, una cultura, con i racconti di N, l’amico greco che li accompagna, che li porterà con sé in Tessaglia, che ripercorre la storia della Grecia moderna e della propria famiglia – «vi ricordate (…) giacché, per un popolo senza memoria che senso avrebbero le vittime, le migliaia di senza patria, il dolore dell’esilio che divora per decenni?»
E il narrare oscilla, tra l’oggi e quel tempo antico, a ritrovare luoghi, paesaggi e fili che raccordano significati, in cui collocare la figura di Cassandra, a dipanarne la ragione interna. Mentre i versi di Eschilo punteggiano i passaggi, e ne costruiscono il racconto.
«Se non mi credete, che importa?
Il futuro certamente verrà.
Solo un attimo,
e lo vedrete voi stessi.»
Nella terza lezione il paesaggio narrativo cambia: sarà «un diario di lavoro sulla materia di cui sono fatti la vita e i sogni», pagine scritte nella casa di Meteln, in Pomerania, dal 16 maggio 1980 al 23 agosto 1981.
La riflessione su Cassandra («Perché lei sollecitò con insistenza il dono della veggenza?») si frammista al pensiero sul tempo presente, sugli accadimenti politici, sul rischio di guerra nucleare («Abbiamo una chance? Come posso fidarmi degli esperti che ci hanno messo in questa situazione disperata? Armata di nient’altro che del desiderio che i miei figli e i miei nipoti vivano, mi appare ragionevole ciò che forse è completamente privo di prospettive: optare per un disarmo unilaterale (…)» mentre tutto si intreccia e si richiama: la realtà socio-culturale e politica dell’epoca minoica, il presente che mostra prospettive terribili; letture, autori; la vita quotidiana, la casa, i luoghi. Per concludere:
«Opporre all’odierna necrofilia (…) qualcosa come <la parola viva>? (…) Essa non dovrebbe più fornire storie di eroi, e neanche di anti-eroi. Dovrebbe piuttosto essere non appariscente e tentare di dare concretamente un nome a ciò che è non appariscente, alla preziosa vita quotidiana. Così finirebbe col sorridere, forse, dell’ira di Achille, del conflitto di Amleto, delle false alternative di Faust. E sarebbe costretta ad aprirsi la strada in ogni senso <dal basso>, in direzione di quei materiali che le appartengono e che, se uno (e una) li potesse osservare attraverso un’ottica diversa da quella usata finora, rivelerebbero possibilità mai ravvisate»
La quarta lezione, in forma di lettere ad un’amica, arriverà al nocciolo del tema, all’argomento del femminile: e del maschile, in conseguenza e in relazione; del modello di progresso che la cultura patriarcale ha prodotto e in cui ci contorciamo.
«Cara A., è una stregoneria: da quando – mettendomi innanzi il nome Cassandra come una sorta di parola d’ordine legittimante – ho incominciato a impegolarmi nei settori in cui essa mi porta, sembra che tutto ciò che mi capita <vi> abbia a che fare, che si sia riunificato senza che me ne accorgessi ciò che finora era separato, che un po’ di luce cada in spazi una volta oscuri e ignoti sotto i quali, prima dei quali (le definizioni di luogo e di tempo confluiscono) si possono sospettare, nelle tenebre, altri spazi (…)»
Spazierà, Christa Wolf, dai miti arcaici, attraverso i punti di forza degli autori, dei pensatori, della cultura occidentale, per collegarsi a Ingeborg Bachmann, a «Il caso Franza», nella cui protagonista lei vede la somma di «tutte le donne di cui oggi ti ho parlato – la veggente, la poetessa, l’idolo, la figura letteraria»
E chiude, senza vera speranza, parafrasando un’odierna Cassandra, sulle tracce di Franziska detta Franza e del suo grido finale: «I bianchi, che siano maledetti!»:
«Vengono i bianchi, i bianchi sbarcano. E se saranno ricacciati indietro, torneranno di nuovo, non c’è rivoluzione e risoluzione e legge valutaria che tenga, torneranno in spirito, se non riusciranno più a venire in altro modo. E che risorgano in un cervello bruno o nero, continueranno ad essere i bianchi anche dopo. E per queste vie traverse torneranno ad occupare il mondo»
E sento tutta la difficoltà di lasciare Christa Wolf a questo punto, nel nostro oggi, trent’anni dopo.