Il treno che non c’è

Paolo Rumiz, “Trans Europa Express”, Feltrinelli 2012

A gennaio di quest’anno Pina Bertoli ha recensito nel suo blog questo libro (qui: andateci subito), consentendomi oggi, dopo averlo letteralmente bevuto, di rinviare a quanto lei ne ha scritto, e regalare a me stessa il lusso di raccontare il mio rapporto con queste pagine, aprendo parentesi, mettendo a tema aree particolari  – dove massima è la mia ignoranza, e in conseguenza massimo, per me, il fascino della scoperta, e delle riflessioni che lentamente si fanno strada a partire da questa lettura – e dal bisogno di rifrequentarla.

Vi sono qui luoghi i cui nomi – sconosciuti ai più, credo, a me sicuramente – esprimono il senso di una frontiera, sulla quale neppure ci si pongono domande, forse; dove vivono genti la cui vita, nella corrispondenza che li rende consonanti con i luoghi, costituisce di per se stessa un confine: della nostra conoscenza ma, ancor più, degli schemi che utilizziamo per formarla – tali per cui al viaggiatore, e per suo tramite al lettore, viene richiesto l’oltrepassamento di un limes, che interroga la relazione tra ciò che conosciamo e il come lo conosciamo.

Un viaggio, in un territorio il cui nome è <Europa> – la nostra casa – apre a un altrove di storie,  talora dolorose, che ci avviluppano nella scoperta di avervi avuto parte, di una condivisione non saputa; apre distanze che rendono altra la creduta (indifferenziata, non tematizzata) vicinanza e integrazione – che la globalizzazione interpreta nella forma di una assimilazione omologante: né pace, né dialogo, né apertura dei confini; mercificazione, che nasconde l’uomo, acceca lo sguardo del vicino che un tempo, in presenza di una frontiera, e per essa, manteneva consapevolezza dell’altro, riconosciuto come tale, e dunque come interrogazione su un possibile incontro.

Mi si presenta un tema: Come, da quale dove, è nato questo viaggio?

Mi si presenta un’immagine: Un treno che non c’è, e che in quest’assenza trova la propria realtà, la possibilità del nostro viaggio.

Mi si presenta il tema dell’alterità che, presente in tutto il libro, apre al bisogno di esplorazione, curiosità, domanda, partecipazione. Incontro.

Il tema è Borea, la terra del Nord, del Settentrione, estremo per la vita delle comunità umane.

Il viaggio di Rumiz è lungo, da Kirkenes, Norvegia, al confine con la Russia, attraverso le Repubbliche baltiche, fino a Odessa, in Ucraina: un percorso sempre al confine – e l’attraversamento del Mar Nero, e l’arrivo a Istanbul, in Turchia, saranno ormai la via di casa, del ritorno a Trieste.

So bene che non è leggibile. Ma ci ho lavorato, per farla, e non so rinunciarci

Mi si presenta la voglia di costruire un abbozzo di mappa, di vaglio delle distanze, delle relazioni, del necessario sguardo d’insieme che la mia ignoranza mai aveva veramente tematizzato come tale. La carta geografica ora mi ha parlato, con parole nuove.

I mattoni per questa costruzione potranno essere unicamente le parole di Paolo Rumiz, le sole che aprono a una molteplicità di letture

Come è nato il viaggio? C’è bisogno di un preludio, su ciò che costituisce il presupposto per qualsiasi viaggio: l’appartenere primariamente a un luogo, a una piccola patria nostra casa, a una Heimat cui ritornare.

Durante una festa del Purim, in cui ubriacarsi è lecito, un rabbino gerosolimitano con la famiglia originaria delle mie parti, mi diede la più bella definizione della mia Heimat: «Quando un triestino si siede in cima a un molo e guarda il tramonto con una buona bottiglia in mano, ebbene quella è preghiera, grande e santissima preghiera». E se fai attenzione, aggiunse, in quei momenti «il mare si increspa di piacere, l’erba del Carso diventa un velluto, le donne ti guardano con prorompente desiderio. E il padrone dell’universo, accarezzandosi la barba, ti dice con compiacimento unito a un pizzico di invidia: ragazzi miei, ancora una volta mi avete fregato»

(…) ho davvero l’impressione che Dio abbia invidia di noi, bastardi sanguemisto appollaiati su questa favolosa scarpata tra i mondi. Noi, che stando in cima a un molo, senza muoverci di un millimetro possiamo vedere l’Europa e la Turchia, immaginare le isole di Ulisse e le birrerie di Praga dove Hrabal cercò i suoi personaggi, indovinare sulla nervatura delle colline il fronte della Grande Guerra che si intreccia con la Cortina di ferro, annusare i magazzini della Serenissima stracolmi di cose d’Oriente e nello stesso tempo l’odore selvaggio delle steppe oltre il Danubio.”

Da questo preludio è sorta una domanda sulla Frontiera: “E così, quando cominciarono a cadere le frontiere e la retorica dello spazio globale si mise a smantellare il senso dell’Altrove, lentamente, per spirito di contraddizione, mi era cresciuta senza che lo sapessi la nostalgia di un confine vero, di quelli di una volta, con reticolati, occhiate arcigne, bagagli passati al setaccio e un silenzio teso davanti all’uomo in divisa col tuo passaporto. Sì, bisognava fare un grande viaggio su un limes, era quello il desiderio inespresso (…)”

Ed ecco Borea, il Nord estremo. La Norvegia, terra del silenzio. La Penisola di Varanger.

Dio mio dove sono finito? Non c’è anima viva. Per strada solo gabbiani grandi e minacciosi, quasi aquile

. (….) un sole freddo si sposta in orizzontale oltre un velario di umidità.”

“(…) attesa esasperante di una notte che non viene.  (…) L’indomani, l’impressione di essere disperso nel tempo (…). Che ore sono? Le dieci? Le sei? Le tre del mattino? (…) nell’albergo regna sovrano il silenzio.

(…) quando esco in corridoio ecco una decina di norvegesi che sorbiscono il caffè in un silenzio claustrale, come nel refettorio di un monastero prima della messa vespertina. (…) E allora così, solo per rompere quel ghiaccio dell’anima e gettarli nello sconcerto, lancio uno squillante buongiorno a tutti, e mi godo la visione di quegli occhi smarriti che si alzano a fatica dal piatto di pesce, uova e cipolla, per rispondere al nuovo arrivato con un cenno. Solo così ritrovo la spinta per affrontare il mio pane nero con aringhe e caffè.

“Ora salgo in verticale, verso Borea, il luogo dell’ultima luce (…)

La Carelia e la Botnia. Due mondi diversi, parrebbe, ma a destra e sinistra vedo gli stessi laghi e gli stessi nevai.

I colori sono tutti uguali, salvo una peluria di fiorellini gialli sulla tundra. Il grigio in compenso ce la mette tutta. Esprime tonalità strepitose.

Grigio antracite dei laghi senza sole, grigio amianto delle rocce, grigio fucile della compatta nuvolaglia sopra i nevai, grigio granulato – luccicante come la mica – dei laghi alti ancora gelati, grigioargento ramato o rossastro delle betulle, grigio nichel o grigio opale del mare quando si increspa nei fiordi, a seconda che esca un po’ di sole o no.”

Kirkenes

“Kirkenes pare improvvisamente bella con le casette colorate e le betulle. Davanti a ogni casa una motoslitta (…) Puoi attraversare anche i laghi, i fiumi sono gelati e bastano le stelle a dirti la strada.”

Territorio russo

“(…) mi parla della de-militarizzazione di uno dei confini più militarizzati della terra (la regione ‘euroartica’ di Barents). L’area transfrontaliera che include Norvegia, Russia e Finlandia. A me risulta il contrario: sul lato ex sovietico Putin mostra ancora i muscoli[i], e anzi la fascia controllata si è allargata di parecchi chilometri. Persino un russo per entrare deve chiedere il permesso sul passaporto. (…). Fino a un posto chiamato Staraja Titovka, cinquanta chilometri oltre i reticolati, è proibito tutto. Fotografare, domandare informazioni, scendere dall’auto.”

“Da qui Hitler partì all’assalto a Murmansk, l’unico porto russo che non gelava e consentiva agli alleati di passare aiuti militari a Stalin. Per questo motivo la città fu bombardata trecento volte e ridotta in polvere come Dresda; (…).

 “A centinaia di miglia dal faro, oltre la punta estrema della Novaja Zemlja, si estende l’arcipelago denominato Terra di Francesco Giuseppe. Gli uomini che scoprirono quelle isole remote venivano da casa mia, dalla costa orientale del ‘Mare di Venezia’. Si chiamavano Marola, Zaninovich, Scarpa, Lusina o Catarinich, cognomi di frontiera, ‘bastardi’ come il mio, e stupirono il mondo tornando tutti vivi dall’inferno bianco che li aveva inghiottiti per novecento giorni. (…marinai dalmati, fiumani, e triestini (…) furono accolti come eroi, ma ancora oggi il nome del loro comandante, Carl Weyprecht, triestino, agli italiani dice poco o niente”

Pagine di storia che legano luoghi lontani a quel baricentro dell’Europa che è Trieste.

A Kirkenes, Paolo Rumiz viene raggiunto dalla sua compagna, la fotografa, viaggiatrice e scrittrice polacca Monica Bulaj, con cui il viaggio proseguirà.

Penisola di Kola.  Lapponia russa. Il paese di Lovozero.

Monika Bulaj

“Kola è terra di visioni estreme, notti bianche e nere leggende. Nel 1799 si dice che i vampiri invasero la terra del sole a mezzanotte e dimezzarono la popolazione succhiando il sangue prezioso dei pastori di renne. Se ne parla ancora, nelle notti di bivacco nella tundra invernale.”

La globalizzazione avanza. “Il paese di Lovozero non è fatto di piccole case in legno (…), come sarebbe logico aspettarsi per un popolo abituato alle tende, ma di casermoni in cemento. (…) Costruito negli anni sessanta, i nomadi lapponi furono obbligati a viverci da sedentari, con una conseguente ondata di suicidi e alcolismo. (…) C’è una messa evangelica, con chitarre e canti molto americani. È la religione completamente svuotata della magia, ridotta a musica, morale, responsabilità, comportamento. La disintegrazione dell’ultima frontiera del mistero. E anche l’ultima spiaggia di un popolo smarrito.”

Ma i nomadi lapponi se ne tengono distanti. Vivono lontano, dove le strade non arrivano, e dove la frontiera non è quella politica, tra Russia e Finlandia, è quella che divide da sempre la vita dei nomadi dalla vita delle popolazioni sedentarie. “Il segreto della loro cultura è lì, i loro bambini nascono lì, nei rifugi e nelle tende. Arrivano qui a sette anni, quando sono già uomini, per andare a scuola”.

Tatjana e Vitaly raccontano:

 “(…) ora, mentre agli ‘indigeni’ si limita la pesca al minimo vitale, i corsi d’acqua maggiori sono dati in uso ventennale a una società inglese che organizza campi di lusso per la pesca al salmone. Seicentomila ettari di bosco sono stati messi in vendita, boschi dove gli animali pascolano da millenni. Fiumi dai nomi leggendari (…) sono dati in concessione a stranieri, e le renne di Santa Claus trovano sbarrate le loro strade di discesa al mare. (…)”

“Tatjana accende una candela sotto l’icona di San Nicola. Spiega che la renna dà tutto. Pelliccia, carne, latte in pieno inverno, materiale edilizio (ossa e corna) anche dove gli alberi non crescono.”

“Kola è un giardino di Dio. Ma il Globale non guarda in faccia il sacro, e per i pastori non c’è tregua. Per loro nessun Babbo Natale in soccorso con una slitta celeste. Proprio i paesi che lo celebrano massacrano i suoi animali simbolo.”

La frontiera, quella vera, dura, di quelle che Schengen ci ha disabituato a passare si ripresenta: Kaliningrad, exclave russa, la kantiana Könisberg dei ricordi di scuola: “La città di K”. Forse. Il ricordo di un altro libro, altra storia. Ma non è sempre la stessa?

Ma il mondo russo è accogliente, la gente socievole, estroversa. Brindisi su brindisi, ogni scusa è buona, tra gente incuriosita dal viaggio di questo italiano. E i treni russi sono “(…) un mangiadormi infinito, una pennica dondolata tra i boschi. Viaggiano anche tre giorni di fila, fanno migliaia di chilometri come un espresso ma si fermano ogni venti chilometri come un locale a scartamento ridotto.

Il viaggio continua. Non resta che leggere. E viaggiare. E disegnare mappe.

Mentre Paolo Rumiz sente “uno scricchiolio che conosce È la finestra di un nuovo viaggio che si apre. Un viaggio da fare il prima possibile”.

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[i] Paolo Rumiz scrive nel 2008