Elvis Malaj, “Dal tuo terrazzo si vede casa mia”, Racconti edizioni 2017
Un bel libro. Candidato allo Strega; che forse non vincerà; un libro che forse neppure entrerà nella cinquina finalista: pure se dovrebbe. Potrebbe. Vincere lo Strega, dico. Mi piacerebbe che questo avvenisse, mi piacerebbe davvero molto.
Una piccola casa editrice, giovanissima, due soli anni di vita ma che occupa, nella produzione libraria italiana, un suo spazio, forse di nicchia ma assolutamente interessante. Un giovane autore alla sua prima prova, dotato di un linguaggio originale, che scorre, dialogico, parlato, rivelando una cura preziosa della lingua; una cura che permea di sé anche un turpiloquio della quotidianità ben collocato, con caratteristiche che mi riportano alla mente, senza che vi sia relazione alcuna tra i due libri, il linguaggio di Raymond Queneau in “Zazie nel metro” (qui).
Mi piacerebbe scommettere su questo libro. Per lo Strega, dico. Pure se mi mancano da leggere (cosa che ovviamente non farò) altri undici libri. Ma vedremo, quando uscirà la cinquina.
Sono racconti. E anche no. A modo suo, in forza di una struttura tematica che lega storie diverse dentro un insieme coerente, il libro potrebbe essere, o si legge come, un romanzo. Dipende dalla lettura che ognuno sceglierà di farne. Si tratta di un’opera che unisce le caratteristiche di un’esperienza, con una sua connotazione anche, pure se non solo, autobiografica, e di un affresco, che restituisce al lettore, attraverso piccole storie solo in apparenza slegate, momenti di vita il cui risultato è una gente, un momento storico, di volta in volta un tempo e un luogo: Milano, Padova, Belluno; un piccolo paese dell’Albania.
Ne deriva una particolare forma di trama il cui svolgersi ci porterà, per singoli quadri, di qua e di là di un mare “che è rotondo”; di qua e di là di vite che, fronteggiandosi, si guardano e si scoprono in relazione.
Un romanzo, dunque, la cui trama nascosta ha a che fare con vite che dialogano. “Dal tuo balcone si vede casa mia”, dirà il protagonista alla ragazza sua dirimpettaia, presentandosi: c’è, in questo, un legame necessario. Mentre ogni dialogo presuppone un modo del fronteggiarsi.
Qui, a differenza di quanto avviene quando si leggono racconti, la lettura può scorrere tutta d’un fiato. Di storia in storia, dal primo racconto, “Vorrei essere albanese” fino al grande racconto finale, “Morte di un personaggio”, che tutto riassume.
Protagonista: lo statuto di emigrante. Forse. Il distacco – che ognuno al mondo compie con la crescita – dalla propria famiglia, da un sé (la terra d’origine, l’infanzia) che chiede di essere lasciato per un nuovo territorio sconosciuto. L’incontro. La distanza necessaria. Protagonisti singoli momenti di vite uniche che cattureranno il lettore mentre il tema si differenzia e si ripete: come in una jam session dove strumenti diversi lo rappresenteranno, e ogni strumento avrà una sua voce, da accordare alle altre voci, che fronteggerà, sola e insieme collegata nella sua particolarità. Una vita. Tutte le vite. Uguali e diverse.
Quadri, micro storie, che costruiscono un’unica storia: di crescita, di ragazzi e ragazze la cui identità è in formazione di un sé che deve prendere le distanze dalla terra e dalla gente tra cui è nato, dalla terra e dalla gente tra cui vive, straniero sempre, innanzitutto a sé; legato, sempre, dalla specularità della relazione all’altro.
Il lettore troverà ironia lieve, sorriso, anche una risata, dentro queste pagine, nello sguardo che oscilla dal sé, ricercato, ancora incerto, all’altro da conoscere; dal confronto con le attese, anche razziste, che l’essere albanese porta con sé, alla strana utilità che l’esserlo può comportare, negli scontri della crescita, tra ragazzi: ci sono le ragazze da conoscere e da affrontare, sempre e comunque terra ignota.
In “Vorrei essere albanese”, il racconto che apre la raccolta, un ragazzo – Andrea, albanese, impegnato a riflettere sulla propria situazione, parla con l’amico Glen e afferma che vorrebbe esserlo, albanese: e il nonsense non risulterà tale, se lo ascolti bene e ti sforzi giusto quel poco necessario a capire; sarà giusto quel po’ da ubriaco: i due sono al bar. Stanno bevendo. E il discorso di Andrea è un discorso di verità, solo faticose e un po’ contorte da esprimere.
A Glen – il narratore – piace ascoltare l’altro che filosofeggia a modo suo; e un po’ comprende un po’ conta i bicchierini bevuti.
A sua volta si presenta, e ci dice del suo nome: Marenglen. Diminutivo “Glen”: più semplice, meno imbarazzante, come vedremo. E nella strana economia del discorso – al bar c’è spazio per tante filosofie di vita – anche il suo nome pare incastrarsi nella spiegazione: del nonsense che non è tale.
“(…) è un nome che esiste solo in Albania. Andava molto di moda negli anni Settanta e Ottanta, quando l’Albania era lo zoccolo duro degli ideali proletari. Marenglen è l’acronimo di Marx Engels e Lenin. E non dico altro.”
Nel racconto, ci ritroviamo coinvolti nella disanima che Andrea compie della propria situazione elencando le cose che nella vita ha ottenuto, le cose che possiede, i problemi che lo definiscono, pare, in uno strano modo per cui il suo essere albanese porta, con qualche contorsione logica, al desiderio di esserlo: in modo coerente, non scisso; non in quel modo per cui ti viene detto che hai una faccia da albanese “ma io non sapevo com’era una faccia da albanese, la mia mi sembrava normale e francamente anche bella” (è Glen che parla? È Andrea?) mentre i rapporti con la tua gente si fanno difficili; mentre i rapporti con i coetanei di qua non sono sempre facili.
C’è di mezzo anche l’età. Ci sono anche le ragazze. È normale. È un gioco. Non lo è.
Chiara l’utilità di avere un posto a cui tornare “quando ne aveva le palle piene dell’Italia, come ce le aveva lui in quel momento, che poi ce le aveva sempre”. Come non capire. Anch’io vorrei essere italiana, in questi giorni, in un qualche modo che annulli il fatto che esserlo è difficile, e ci sarà pure un luogo, o un modo, per esserlo senza viversi scissi, trovandosi bene – “si, bé, poi comunque emigrerei in Italia, ma non sarebbe male se fossi albanese (…)”.
Il lettore è a sua volta scisso: tra la voce di Glen, narratore e la voce di Andrea, con il suo narrare di sé. Chi è il narratore?
Ci si può rimuginare un bel po’, se non fosse che il racconto prosegue, la storia prende movimento, c’è il gruppo di studenti italiani al tavolo vicino, fuori piove.
“Boccia, togli i gomiti dal nostro tavolo”.
È Andrea che parla. Il calore del racconto sale. Scende. Si placa. Risale. Trascorre attraverso tutte quelle cose lì, che hanno a che fare con quell’età in bilico; quando, per rassicurare se stessi, occorre operare qualche dimostrazione agli altri.
“«Non rompere» ha risposto quello. (…)”
“«Boccia» ho detto io e ho aspettato che si voltasse. «Hiqi brrylt prej tavolns töne, n’mos daç me ti thye dhëmbët». Il ragazzo mi ha guardato perplesso e ha tolto i gomiti dal nostro tavolo. A volte l’albanese è più comprensibile dell’italiano.”
La tensione scende. La tensione sale. Sfiora il calor bianco. È il momento dell’uscita dal locale. Momento difficile. Prima di chiudere i conti vanno saldati. La tensione sale. La tensione scende.
Nel secondo racconto ci sarà una prima volta del sesso. C’è quella cosa confusa. Il problema della verginità. Difficile sapere bene cosa sia successo. Per fortuna c’è internet. Lì si trova tutto
“Maria aveva trascorso l’intera mattinata in camera, e dopo una lunga ricerca su internet aveva scoperto di essere ancora vergine”. Quanto a lui, a Giuseppe…
C’è poi il racconto con dedica: “Alla mia Albania” – e siamo dall’altra parte del mare, a conoscere una storia di scarpe strette, piedi doloranti, perdita del lavoro, problemi con la moglie e, sì, anche con un cane. Un bel racconto. Forse non è molto facile essere albanese. Il sorriso, tuttavia, deve far parte del bagaglio per affrontare la vita – almeno quella degli altri.
Dodici storie. Dodici incontri. Che a poco a poco costruiscono l’affresco sul quale l’ultimo racconto accende le luci – il quadro è completo. Il pubblico lo può ammirare, con un “Oh” prolungato.
“Morte di un personaggio”. C’è il protagonista, il ragazzo albanese alle prese con la scrittura del proprio primo romanzo:
“Aveva un grosso problema: doveva uccidere un personaggio. La cosa andava avanti da giorni e Kastriot non riusciva a trovare un modo per farlo fuori; era come se non volesse morire (…)”
C’è una madre che interrompe il momento creativo: sul balcone della casa dirimpetto i fiori stanno morendo poiché, forse, la proprietaria è assente, e nessuno li bagna.
C’è la richiesta al figlio di arrampicare il balcone e bagnare quei poveri fiori. Di compiere, dunque, una forma di effrazione in casa altrui. I fiori non devono morire!
Un incontro. C’è qualcuno nella casa.
Ci sarà posto per la poesia di Alda Merini, nel tutto. Mentre il personaggio che deve morire si intrufola e insiste a vivere.
Mentre ci si ingarbuglia (merito di una grande maestria di scrittura) nella commistione dei diversi livelli di realtà che entrano in gioco, c’è il racconto di sé, di un punto di arrivo, forse, meglio, di un punto di partenza. Per attingerlo occorrono una serie di flash back al passato, mentre tutto si riconcilia e consente il salto a un nuovo stadio di complicazione.
Un vecchio sé fatica a morire. Si rifiuta fermamente. Gli ci vorrà ancora del tempo. La vita continua.
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