“Spezza, o Dio, agli empi, i denti nella bocca / rompi, o Dio, le mascelle dei leoni”

 

Paolo Rumiz, “Il filo infinito”, Feltrinelli, aprile 2019

“…la mia anima è poco propensa a celesti pensieri. Troppa rabbia per quello che succede in Europa. Di questi tempi preferisco i Salmi Imprecatori, che ho da poco scoperto nella Liturgia monastica delle ore…Salmi che esortano ad affacciarsi senza timore sul fosco mistero del Male, a proclamare a voce piena la sua esistenza al cospetto di Dio, anche per chiedergli di sbrigarsi a mettere in pratica la vendetta contro gli empi…”

Sto partendo dalla fine, dalle ultime pagine, di questo libro. Mi sono riservata, per alcune ore, la lettura dell’ultimo paragrafo di questo libro, al termine di un viaggio sulla carta attraverso i Monasteri Benedettini d’Europa: alla scoperta dell’Europa, delle sue radici, seguendo “La Regola”, il “Ora et labora” che norma l’autonomia e l’autosufficienza dei Monasteri di San Benedetto, il Santo Patrono d’Europa.

Il tema – non la speranza, mi pare; non del tutto; forse il suggerimento del possibile – sta nella riflessione su di un percorso; nell’indicazione di una strada; nell’indicazione di un’ora, di un tempo, in cui “non importa quanti gomitoli, quanta pazienza e quanto ostinato lavoro serviranno per smuovere il potere e abbattere le ruspe dell’intolleranza. È ora di dire che l’Europa è un’anomalia che intralcia assolutismi, mafie, fondamentalismi e le economie di rapina che saccheggiano il Pianeta.

La nostra dea madre fenicia Europa[i] – affermerà in seguito Rumiz – che per prima attraversò il Mediterraneo con paura, ci ricorda che siamo sempre stati capolinea di popoli migranti e ci spinge a sciogliere altre matasse e a tendere altri fili, in un gesto d’amore e disobbedienza civili.”

Norcia, aprile 2017: si apre il libro. In cammino.

“Dopo le rovine dei paesi non si videro più uomini e la montagna si fece aspra e solitaria…”

Percorrere l’Appennino, tra Umbria e Marche, percorrere Pian Grande di Castelluccio di Norcia, “quella distesa incantata…dove l’unico modo di camminare in quel mese d’aprile era andare scalzi per meglio sentire la voce della terra…il centro della faglia che aveva scosso l’Appennino e allo stesso tempo il centro perfetto della Penisola che stava in mezzo al Mediterraneo”

E poi Norcia in rovina, le macerie, mentre al centro della piazza, intatta, si erge la statua del santo, “benedicente, in mezzo ai detriti di un mondo”: Benedetto dice del suo territorio devastato; dice dell’Europa, dei montanti egoismi nazionali che la stanno distruggendo. Dice che, un tempo, “i semi della costruzione erano stati piantati nel peggior momento possibile per il nostro mondo, in un Occidente segnato da violenza, immigrazioni di massa, guerre, anarchia, degrado urbano, bancarotta. Qualcosa di pallidamente simile all’oggi”

Norcia, la statua intatta, dopo il teremoto, di S. Benedetto

San Benedetto, vissuto a cavallo tra il V e il VI secolo, quando era da poco finita la breve decadente storia dell’Impero Romano d’Occidente, travolto dagli eserciti dei “barbari”, pose le fondamenta della sua opera proprio quando l’Europa necessitava di un “filo” che custodisse e rinvigorisse la trama di una civiltà, di una cultura e di una identità.

Uno strano e imperdibile libro, questo: un autore con cui si cammina, si viaggia, ascoltando e conversando; e non c’è nulla che superi questo piacere mentre si va e si attivano, nella scoperta, tutti i sensi. Ci ritroveremo con pensieri da condividere, possibilmente anche segnati da aspetti sanguigni, caldi di passione; a dialogare con uno capace, insieme, di accogliere e maledire. Perfetto.

Percorrendo la rete dei Monasteri Benedettini, a partire da Norcia, dall’Appennino, e attraversando l’Europa, ci apparirà un filo che continua a tessere lo sviluppo di un’identità culturale avviata oltre millecinquecento anni fa in un tempo in cui tutto crollava.

Eppure: ho letto questo libro anche non condividendo ciò che leggevo, riaprendone le pagine e distaccandomene, per poi riaprirle: perché ci sono cose di questo nostro mondo che, nel respingerle, ti attraggono; che senti il bisogno di, per l’appunto, respingere attivamente, guardandole bene in faccia.

Ci sono confronti cui non puoi, non vuoi, mai accetteresti di sottrarti, anche fino alla rissa; talvolta, ma solo poi, anche fino all’accoglienza, magari parziale, anche solo in ipotesi: di qualcosa, di singoli aspetti. Senza tuttavia mediazioni. Con possibile sospensione del giudizio (senza che il calore, anche della rabbia, ti lasci davvero).

 C’è, dunque, in questo libro, qualcosa che mi ha attratto come accade quando si incontra una seduzione che sai, credi, senti, avere al fondo l’errore; e desideri godertela tutta quella seduzione, senza finirne vittima; ed è difficile stare all’erta, alla caccia dell’errore così come è difficile stare all’erta per il rischio di cadere in una disonestà intellettuale che ti potrebbe condurre a non vedere coniugati il bello e il vero, ecco.

Davvero difficile sbrogliare il filo della storia e della cultura europee.

Risultato: Libro che veniva lasciato (poche ore, solo un’intenzione) libro che veniva ripreso, con rabbia sedotta –  e le sottolineature si sono accumulate; con le note a margine, i commenti, anche sbagliati, ma da lasciare perché non sbagliati del tutto, perché ci sta il dovermi, in futuro, quando lo rileggerò, ricordare, per confermare o aggiungere altre note di correzione, di integrazione, un punto esclamativo che rafforzi il tutto, o un pentimento: da dichiarare, conservando integro il percorso di lettura e di emozione.

Tutto a matita, eh! E sono comunque una rovina-libri.

Mi ritrovo ora a ripercorrere all’incontrario la strada lungo la quale ho seguito Paolo Rumiz, non sempre, come detto, di ottimo umore.

“Spezza, o Dio, agli empi, i denti nella bocca / rompi, o Dio, le mascelle dei leoni”

“(Essi) scenderanno a precipizio nel sepolcro / svanirà ogni loro parvenza / gli inferi saranno la loro dimora”.

“Li colga la bufera improvvisa / li catturi la rete che hanno tesa / siano travolti nella tempesta”

Un punto che mi ha fatto sentire particolarmente concorde: anch’io, di questi tempi, sarei tentata dai Salmi Imprecatori se non fosse che, no, ecco, non proprio: sono “non preghiere” che si trovano, pure loro, su quel percorso che ha portato a ciò che viviamo, a ciò che il mondo intero, anche a causa di quel percorso, si trova a vivere in questo nostro tempo. La grande civiltà occidentale, e la sua religione, non possono dichiararsi innocenti.

Difficile raccontare la mia percezione di un errore, di qualcosa di fondante che falsifica, per me, questa affascinante costruzione. Posso solo raccontare un episodio, un piccolo fatto che, come talvolta accade, ha provocato in me un momento di stupefatta improvvisa comprensione: come accade quando ci abbaglia la vera natura di qualcosa che, facendo parte del nostro mondo abituale, solitamente non cogliamo nella sua realtà fattuale, non solo razionale.

È trascorso un po’ di tempo. C’era stato un funerale; le esequie, in pompa magna, di un sacerdote molto amato nella sua comunità: una persona molto nota e meritatamente stimata, da credenti e non.

Per la celebrazione sono giunti alti prelati, vescovi, monaci, anche da lontano.

Ora, ho ben presente che il sacerdozio, nella chiesa cattolica, è riservato ai soli maschi della specie umana. Non mi colpisce, dunque, che l’officiante, sull’altare, sia sempre un maschio. Ma quel giorno non uno bensì oltre cento religiosi – li ho contati, a spanne –  tra concelebranti e non, occupavano il presbiterio. Il tutto assomigliava ad una rappresentazione teatrale dove un grande coro eseguiva canti, preghiere, movimenti vari, una specie di danza con particolari gestualità sincrone, dopo essere entrato e infine uscendo in fila, ogni partecipante riccamente ricoperto dai più diversi paramenti.

Su di me è precipitata come un macigno la visione, in senso proprio – non più, per l’appunto, come qualcosa di semplicemente noto – di un <Maschile> isolato in tutta la sua potenza e in tutta la sua pregnanza sul nostro mondo, che mi ha lasciata sbalordita. Per la prima volta l’ho sentito come cosa viva, come dato matericamente fattuale.

Martín de Vos. Amberes (1532-1603). “Il rapimento di Europa”, 1590 circa, olio su rovere, 133,7 x 174,5, Museo delle Belle Arti di Bilbao

Ecco: questo libro, dove ci sono, sia pure in misura limitata, Monasteri femminili – fondati dalla sorella gemella di S. Benedetto, Santa (anche lei) Scolastica da Norcia – trasuda <Mascolinità> in ogni sua pagina, senza, credo, consapevolezza alcuna; senza sentirla in tutta la sua funzione di sostegno, fondamento, baluardo di protezione, di quel Patriarcato che sta alla base di ciò che mina, infragilisce, rende malsane le nostre società e tutta la cultura occidentale (e suoi derivati, forzatamente “democratizzati”).

È un patriarcato che va al di là, per ognuno di noi, della singola appartenenza di genere; al cui mantenimento dà un fondamentale sostegno la parte femminile della popolazione – non per nulla, nella struttura familiare che oggi qualcuno pensa di dover strenuamente difendere, la trasmissione delle norme culturale è, da sempre, con la cura dei figli, compito assegnato alle donne. Che purtroppo, troppo spesso, fanno le cose davvero per benino.

Non per niente, e non dovrebbe essere dimenticato, il mito della “nostra dea madre fenicia Europa” si fonda su di uno stupro – e in nessun mito Zeus fu cacciato dall’Olimpo da un qualsivoglia #MeToo idealmente condiviso, come sarebbe necessario, tra maschi e femmine: perché anche ai maschi farebbe bene poter dire #MeToo e venir accolti, a braccia aperte, nella loro faticosa conversione. È faticosa anche quella femminile.

Ecco tutto. Un libro da leggere. Un vero piacere, che fa pensare. A tanti livelli.

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[i] Il mito di Europa narra che la giovane, figlia del re fenicio Agenore, viene veduta da Zeus che si trasforma in toro per imbrogliarla e possederla. La ragazza vede un docile toro, lo accarezza e gli sale in groppa; e Zeus ne approfitta per rapirla, trasportarla a Creta e lì, nonostante lei tenti di fuggire, violentarla..

Una versione narra che Europa in seguito si innamorò di Zeus.

Uno dei figli di Zeus e Europa fu Minosse che, adottato dal re di Creta Asterio, divenne il re da cui nacque la civiltà minoica, fondamento della storia greca e occidentale.