Le piccole patrie e le guerre dei potenti

Adriatico insanguinato_recensioneCristiano Caracci, Adriatico insanguinato. Genova, Aquileia, i Carraresi, l’Ungheria contro Venezia,
Editore Santi Quaranta Treviso, 2014

Cristiano Caracci torna con un altro bel libro i cui personaggi sono luoghi e genti, e parlano utilizzando voci la cui invenzione nulla toglie alla verità delle esperienze umane narrate, dentro la verità di fatti storici.

Con i territori e le loro appartenenze – il Friuli del Patriarcato di Aquileia, dalla pedemontana alla laguna di Marano, la Serenissima, La Repubblica di Genova, il loro estendersi, nei commerci, nella guerra, nell’intreccio tra guerra e commercio, fino a Costantinopoli, al quartiere genovese di Galata e alla città ottomana – vivono i luoghi della gente e i paesaggi, le piccole patrie.

1378. Il palcoscenico è la guerra che opponeva a Venezia il re di Ungheria, la signoria carrarese di Padova e la Repubblica genovese. Nell’agosto del 1379 i genovesi occuparono Chioggia, poi ripresa dai veneti nell’estate del 1380. Marano, patriarchino, assume importanza, essendo caduta Chioggia, fino alla liberazione di quest’ultima da parte di Venezia. I fatti raccontati stanno in questi due anni di guerra.

I personaggi sono il Friuli di Magnano in Riviera, e il Castello di Prampero; il Friuli della Laguna di Marano, della foce dello Stella; la grandezza di Venezia, la sua sofferenza e il suo orgoglio; Costantinopoli, con le sue meraviglie e la sua capacità di integrare lingue e genti (che è un po’ la stessa cosa, difficile separare le persone dai suoni che fanno essere, nominandole, le cose intorno a loro), di costruire convivenza nella separatezza e trarre, per questa via, la capacità di tessere legami.

I personaggi-luoghi, paesaggi, suoni, hanno voci: quella di Tite, soprattutto, che narra il suo formarsi nell’appartenenza alla sua ‘Riviera’, al declivio che risale al castello e alla grande famiglia-comunità che non lascia solo un suo orfano, che è identità rivendicata, dal conte all’ultimo dei contadini (“puâr frut! A soi gnagne Catine…): e “gnagne”, zia, oltre che termine che designa una parentela, è termine che definisce il legame con cui gli adulti assicurano il comune prendersi cura dei figli di tutti.

La voce farà parlare la vita delle persone, nei luoghi ‘piccoli’ che le grandi potenze malmenano come fossero cose di proprietà, materia a loro disposizione per le loro guerre. E Tite dovrà lasciare la sua terra di collina per andare alla guerra, a Marano, alla Laguna, ad un altro paesaggio, ad imparare una nuova appartenenza, nuovi legami.

Altre voci narrano la guerra, in laguna, narrano le vie d’acqua, i canali e una fauna fatta di bisce d’acqua, di tafani, di topi ma anche di gustose cape da raccogliere e farci un buon cibo; narrano i percorsi al mare e la sorveglianza. Narrano l’apparire delle navi nemiche e amiche.

Narrano la battaglia, non importa di chi contro chi, “le urla dei soldati, l’incitamento, l’assalto, il dolore delle ferite, la paura non avevano accenti, non si potevano dire veneti, liguri, furlani o ungari e soltanto i nomi dei Santi invocati, Marco Giorgio Vito Stefano, distinguevano i lamenti e le grida orribili delle parti, come i Santi potessero partecipare al massacro degli uomini”.

L’ultima voce è quella del veneziano Giovanni da Campo, dove si mescolano la vita delle ricche famiglie di mercanti veneziani, le relazioni con Costantinopoli per le quali la guerra e il commercio convivono e anzi si sostengono a vicenda, e “a Costantinopoli si faceva ciò che a Venezia e a Genova neppure veniva detto: Serenissimi e Superbi erano nemici a ponente ma ben volentieri lavoravano insieme a levante dove, intorno all’argento e all’oro, ci si comprendeva perfettamente”.

Le voci narrano la barbarie che coglie – sempre, ieri come oggi – quando il confine di una vita buona viene travolto dalle armi. E narra, Giovanni, le parole con cui l’accompagnatore genovese gli fa conoscere la Costantinopoli ottomana, che dicono il dolore per la perdita della capacità di vivere insieme, di mondi che diventeranno “incomprensibili gli uni agli altri” e alla fine “quando avremo distrutto ogni cosa, allora ci domanderemo se sia stato buono e conveniente perdere l’ultimo sogno”.

Giovanni sceglierà infine di vivere a Pirano, in Istria, dove nella guerra e nei suoi orrori aveva incontrato Annina, una nuova casa e una nuova appartenenza, lasciando una Venezia “affamata, terrorizzata e tuttavia ancora capace di coniare in oro” una Venezia che, dunque, “avrebbe vinto la guerra”.

Un libro, questo di Cristiano Caracci, che – va detto – richiede un po’ di fatica, diretto com’è, forse, a chi almeno un po’ conosce e ama luoghi e storie. Ma è un libro che ha un respiro più ampio di quei fatti, di quei luoghi, e parla degli universali della condizione umana. Specialmente oggi, altra storia, in apparenza, alcuni luoghi o le loro adiacenze che ritornano alla guerra mai lasciata, ed è impossibile non guardare e non ricordare il vicino mondo dei Balcani, come non è facile non guardare alla bellezza di quel passaggio, dai Dardanelli al Bosforo, al Mar Nero, e ai popoli che vi si affacciano: passaggio stretto, tuttavia passaggio, legame possibile e storia condivisa, che può far vivere o travolgere le piccole patrie.