Un mese di libri e di pensieri diversi. Un po’ di resoconto. Qualche chiacchiera.
Ho letto “Mine-Haha ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle”, di Franz Wedekind
Provo molta incertezza nei riguardi di questo autore, che non avevo mai letto; e del suo racconto, che mi ha comunque affascinato. Il perché non saprei esprimerlo.
Ho già detto che lo devo rileggere. Poi c’è tutto da capire. C’è Wedekind, personaggio anomalo, posso dire così? Di cui risulta difficile anche una biografia, anche limitandosi ai fatti della sua vita. Appartiene al linguaggio del teatro, anche se quest’opera è un racconto, meglio forse uno spezzone di qualcosa.
Beh, alla fine del testo, c’è un saggio, a commento, di Roberto Calasso. Ma non voglio, ancora, leggerlo. Prima devo rileggere il libro, devo. Poi, certamente, Calasso spiegherà tutto, almeno spero.
Il racconto avvince, è davvero impagabile, ci si ritrova a rovistarne il senso come forsennati per capire (sospettare? Si, sospettare, credo sia così) tutto. E questo è sufficiente a farne una buonissima lettura. Sento che è tutto, ma proprio tutto, buono e vero, ma non so dove non so come. Dunque: è necessario rileggere, lentamente, piano piano, non berlo d’un sorso, come ho fatto mentre la bocca mi rimaneva spalancata per lo stupore. Spero di aver incuriosito qualcuno e magari ricevere aiuto, sarebbe bello.
Messo in attesa Wedekind – credo che la prima lettura debba sedimentarsi – ho letto “Un’eredità e la sua storia”, di Ivy Compton-Burnett. Un’autrice che conosco, che apprezzo molto, con la quale, tuttavia, è inevitabile avere un rapporto ambivalente. Affascina e disturba. Ma soprattutto affascina, direi. I suoi ambienti, le sue case vittoriane, terribilmente per bene, regalano il piacere che si prova a far qualcosa di proibito. Seguirà una recensione, ma è difficile non parlare dell’autrice oltre che di questo libro.
Ricordo, intensamente, un altro suo libro, in particolare, “Più donne che uomini”: il piacere e il brivido. Chi la conosce non ha bisogno di spiegazioni per quello che dico.
Tra parentesi: si fatica a scriverne il nome, ma questa donna non poteva avere che un cognome così, doppio, importante, trait d’union compreso, al quale sarebbe stato difficile aggiungere quello di un marito, sarebbe stato davvero troppo!
Secondo Arbasino, Ivy Compton-Burnett, che lui chiamava ‘la grande Signorina’, ha “riscritto (praticamente) lo stesso straordinario romanzo con verve allucinatoria, con smisurata perfidia, per almeno quarant’anni, un anno sì e un anno no. (….)”. Sarà pure lo stesso libro, ma leggerla è sempre un’esperienza, da cui poi ci si deve un po’ riprendere, ecco. Ridendo. Tremando. Con modi misurati e buone maniere.
Nel caso di “Un’eredità e la sua storia”, si tratta di un libro che, poi, solo poi, fa pensare, mentre si rabbrividisce leggendo e si sorride; poi lo si ripensa, poi un po’ si sghignazza, poi c’è quel certo gradevole disagio per il sottile senso di benessere che solo la cattiveria può dare, una certa qual soddisfazione, ecco. Una soddisfazione da impuniti, mentre continuiamo a pensarci buoni. Grazie Miss Ivy.
E’ evidente. Il libro mi è piaciuto moltissimo, tanto da non riuscire a trattenermi dal parlarne. Forse, salvo una sinossi, l’ho già presentato per cui, se volete, cominciate a leggere. Poi ne riparleremo.
E arriva un altro pensiero. Sul tempo a cui è appartenuta questa scrittrice, vicino a noi e ormai lontanissimo. E mi viene, così, da pensare ad altre donne scrittrici inglesi sue coeve, quelle con cui ha condiviso il proscenio.
C’è Virginia Woolf, una grande a sé, il suo tempo interrotto, la sua particolare collocazione: una figura centrale nel mondo letterario del suo tempo, di cui Compton-Burnett è stata parte, un po’ a lato; giudicava la Woolf una snob, mentre quest’ultima ha trascorso una nottata insonne rosa dall’invidia per non saper scrivere come lei.
C’è, ma sì, incredibile, Daphne Du Maurier, Lady Browning, ve la ricordate? I suoi drammoni, la suspense, Rebecca la prima moglie e Mia cugina Rachele. I libri della Du Maurier sembrano, al confronto, appartenere ad un altro secolo. Oggi, non credo siano molto letti. Ma il confronto può essere interessante.
E c’è, soprattutto, Agatha Christie. Ivy Compton-Burnett e Agatha Christie: qualcosa le accomuna. Sono blasfema? Generi incomparabili? No, sono due grandi scrittrici. La Compton-Burnett ammirava la Christie. Si saranno incontrate? Avranno avuto occasione di prendere il tè insieme? Probabilmente sì.
Nei loro libri, ambedue presentano buone famiglie dell’alta borghesia-piccola nobiltà, maggiordomi senza pecche, bon ton a secchiate, dopodiché: leggendo Compton-Burnett, entrando nelle ‘sue’ famiglie, ci si aspetterebbe l’omicidio entro poche pagine, e ci si trova di fronte al genere ‘non c’è problema, dopotutto sappiamo tutti che solo la menzogna è vera’. Che poi non c’è, neppure quella: origliando alle porte, parlando alle spalle mentre c’è sempre chi sente, spesso l’interessato, tutto è palese per tutti.
Le famiglie della Christie sono altrettanto formali ma più serene, famiglie dove, al massimo, c’è un unico cattivo soggetto, immediatamente evidenziato come tale. Seguono macelli, presentati educatamente e tuttavia veri macelli: in cui naturalmente il cattivo soggetto non è mai l’assassino.
Poi uno guarda la foto ufficiale della grande Signora Omicidi e vede l’immagine di una buona anziana signora, dal sorriso gentile, indicatore di buoni sentimenti; passa alle foto che ritraggono la Grande Signorina, e non è molto difficile pensarla con un coltellaccio in mano o mentre serve un tè al veleno. E invece, quando mai! Le sue famiglie possono persino volersi bene. Anche se, nei romanzi di Compton-Burnett la morte c’è, eccome se c’è.
Fantasie balorde, certo, chiacchiere: ma i buoni libri regalano anche queste. E fanno parte del piacere.
Dimenticavo: Volete sapere l’esito del mio invito ai lettori a scrivere? (Vedere: Settembre (segue): questa vuol essere una libreria). Nel merito: due risposte. Poche? No, non proprio. Magari c’è chi, proprio in questo momento, sta pensando. Non bisognerebbe far fretta al tempo. Mai. Lui ne ha già troppa di suo.