Ci si avvia a fine anno, questo mese di dicembre trascorrerà veloce e sarebbe quasi ora di riflettere su questa scrittura. Ci penserò con il nuovo anno e magari sarebbe bello che qualcuno lo facesse con me.
Ma vorrei cominciare, magari un po’ a casaccio, come è uso in questo spazio, a condividere qualche inizio di pensiero, sperando ne esca qualcosa che possa suscitare anche l’interesse di chi legge.
Parto da un piccolo grande tema, ed è questo: Quando preparo un testo, dopo aver letto e aver debitamente preso appunti, il mio principale problema consiste nel selezionare le cose da escludere, alle quali rinunciare, tra le tante cose che il libro offre, a favore di altre, per rispetto di quel contenitore ragionevolmente rigido che è lo spazio disponibile, ragionevolmente fisso. Per la cronaca, di massima scrivo tra le 800 e le 1000 parole per ogni post; sembrano molte ma non lo sono, è incredibile quanto scorrono, un rubinetto aperto è niente al confronto, peggio del conto delle spese a fine mese.
Certo, è uno spazio che ho definito io e io lo posso cambiare, ma non penso sia il caso; le regole sono essenziali, chi legge deve sapere cosa si troverà di fronte e per chi scrive è indispensabile una disciplina.
Una parte non secondaria della scrittura sta dunque nello scegliere cosa <non> scrivere, di cosa <non> parlare.
Prendo ad esempio l’ultima recensione. In “Una stanza tutta per gli altri” di Alicia Giménez-Bartlett i livelli di lettura sono molteplici e inoltre, nel recensirlo, mi è stato necessario dare molte cose per assodate, o ininfluenti (e non lo sono).
Esempi? La storia e la vita di Virginia Woolf, la sua malattia e la sua sofferenza, che nel libro sono presenti e significative, i componenti del gruppo di Bloomsbury di cui nel libro si parla, la Fabian Society, tutte cose che costituiscono il background degli avvenimenti narrati; ci sono poi anche il mondo del periodo vittoriano, le lotte operaie, la prima legge sul diritto di voto (parzialissimo e restrittivo) alle donne. L’elenco potrebbe continuare.
Soprattutto, non ho fatto il minimo accenno a “Una stanza tutta per sé” della Woolf, il libro cui Giménez-Bartlett si riferisce con il titolo, “Una stanza tutta per gli altri”, del proprio romanzo. Perché non ne ho parlato? Semplicemente perché avrebbe aperto una parentesi infinita. E ho concluso che, per chi conosce il libro della Woolf, il riferimento e il suo significato sono ovvi e significativi mentre, per chi non lo conoscesse, il citarlo e basta non avrebbe aggiunto nulla.
Non so rendermi conto di quanto, oggi, “Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf sia ancora un testo universalmente noto. Negli anni ’70, è stato una Bibbia dei movimenti femminili.
Faccio subito una piccola indagine, ‘nasometrica’ come si dice: Ecco, bella cosa Google. Amazon lo vende in versione Kindle sotto i due euro mentre, in cartaceo, lo vende pure, nuovo e usato, ma segnalando la disponibilità residuale, a euro 6,38. E già a questo punto, possiamo ritenerlo un libro richiesto da pochi intimi.
Indago ulteriormente: on line è reperibile un’edizione e-book Einaudi del 2014 . Posso dedurne, con buona probabilità, una reperibilità correlata ai romanzi della Woolf (a loro volta, oggi, molto letti? Sicuramente letti da un pubblico di nicchia ma, se vogliamo dire così, regolare.)
“Una stanza tutta per sé” di Virginia Woolf non è dunque un best seller. E tuttavia: dato che costa poco, almeno voi che possedete un Kindle, se non lo conoscete, costa pochissimo, potreste leggerlo, per favore? Non ci vuole molto, è breve e il tema non è obsoleto, credetemi. Credetemi davvero! Dopo averlo letto, acquisterete sicuramente il cartaceo.
Potrei continuare, un libro ne chiama un altro, un tema richiama l’altro, le cose, le storie, le idee, non nascono dal nulla e fanno sistema tra loro. E io fatico, molto, a non farmi travolgere dalla voglia di metterci dentro tutto, ma proprio tutto, a partire da un mare di domande, e tutto non basterebbe perché ogni aggiunta, oltre a non raggiungere quel benedetto tutto, apre a un altro tutto altrettanto irraggiungibile.
Così, mi trovo la voglia di dire “Parliamone”, con molta incertezza sull’opportunità di farlo. Nel contempo, resto convinta che il poter collocare nel suo contesto una narrazione espanda il piacere della lettura. E quel contesto, ogni contesto, è un mondo bello e interessante da visitare, non per, o non solo per, una sua qualità di eccellenza ma perché è, propriamente, <un mondo>, che costruisce idee, che si accompagnano alle nostre, le modificano, le giustificano, le orientano; perché sono mondi che regalano stupore – quante cose pensiamo di aver inventato in tempi recenti per poi scoprire che altri le conoscevano e le propugnavano prima di noi, e persino sapendo molto meglio di cosa parlavano! E quante cose, avendole noi dimenticate, o non conoscendole proprio, ci causano, oggi, gravi danni!
Ancora un esempio? Piccolo piccolo e attuale? Noi possiamo parlare dell’articolo 18, possiamo argomentare il fatto che vada modificato, possiamo persino dire che non serve, che intralcia, ma dovremmo dirlo con cognizione di causa, dovremmo sapere davvero a quale bisogno risponde, in che mondo è nato, in che mondo oggi si colloca, cosa si perde lasciandolo, cosa ci si guadagna a eliminarlo e con cosa lo si sostituisce.
Ci credereste? Queste cose si comprendono meglio leggendo romanzi che leggendo giornali, che non hanno ieri non hanno domani (ma devono essere frequentati, naturalmente, e più d’uno, possibilmente).
Poi ci sono altre letture, a mio parere molto interessanti, ne ho proposto ultimamente, quali “Il grande Crollo” e la biografia di J. M. Keynes di Robert Skidelsky, che sono davvero poco adatte alla recensione nella forma che sto usando. Lo so bene che i critici di professione li recensiscono, ma mi chiedo davvero se non ci sia un modo, diverso dalla recensione, che li renda fruibili, in uno spazio loro; magari a integrazione della recensione di un romanzo di cui costituiscano un riferimento? Uno spazio in cui si possa non ‘recensirli’ ma parlarne. Parlare dell’autore, del periodo, dell’opera. Dovrei modificare, almeno in parte, questo spazio?
Concludo preannunciando la prossima recensione.
Ho scelto qualcosa di piacevole, che possa adattarsi ad un avvicinamento al periodo natalizio e al bisogno di letture certo buone ma rilassanti, che regalino anche un sorriso tra un impegno e l’altro. E il prossimo libro regala più di un sorriso anche se, a guardar bene, contiene molto altro.
Dunque, alla prossima con “Il giardino di Elizabeth”, di Elizabeth von Arnim.
Bollati Boringhieri lo ha rieditato nel 1014, in e-book, ma è tuttora reperibile la bella edizione 2001 cartacea.