Nuove scoperte, vecchi autori e voci trascurate

Un angelo alla mia tavolaDopo aver recensito i bellissimi racconti di Peter Cameron di “Paura della matematica”, o meglio prima di farlo, ho dovuto prender nota del fatto che si tratta del primo libro di racconti di cui mi occupo in questo spazio.

La verità, ovvia, è che ne ero perfettamente consapevole; qua e là, mi era capitato di parlare di racconti, e di desiderare di farlo, di desiderare di proporne. Ricordo di averne citato alcuni che ho molto amato, storie fantastiche – “Bartleby lo scrivano”, di Herman Melville, “Le morti concentriche” di Jack London, “25 agosto 1983 e altri racconti” di Jorge Luis Borges – limitandomi, tuttavia, a darne indicazione, a condividere ricordi, senza proporne davvero la lettura.

Si trattava di racconti particolari, certo, e se ho tralasciato di proporli ciò è avvenuto anche per il fatto che sono, in parte, di difficile reperibilità e, ne ho già parlato, ho scelto di proporre, in questo spazio, libri maggiormente reperibili: le ragioni sono varie, discutibili e certamente rivedibili, le eccezioni non sono escluse, ma questa era stata la scelta.

E tuttavia: anche il proporre questo tipo di racconti mi pare sia stato un modo per fuggire il genere. Non ne comprendo bene il motivo; almeno in buona parte, escludendo razionalizzazioni poco utili, posso certamente dire che non lo so. E, se ne comprendo poco il motivo, è più che ora che non solo me lo chieda, ma vi ponga rimedio.

Io amo i racconti, molto. E’ tuttavia vero che ho per questo genere un amore particolare, che potrei definire del tipo tutto o niente, privo di mezze misure, che va un po’ al di là del normale rapporto che si ha con un libro: che può piacere anche se non lo si ritiene un capolavoro; che in certi momenti può venir ricercato proprio per questo, per una lettura di svago, senza impegno; è certo che non si desiderano in ogni tempo le stesse cose, si desiderano letture diverse in momenti diversi ma restando anche disponibili a variare una scelta; si può restar parzialmente delusi da un libro ma proseguirne la lettura e anche trovarla comunque interessante, piacevole, cose così.

Ma il racconto è altra cosa. E’ un qualcosa per la cui lettura è necessario scegliere un tempo particolare, contemporaneamente lungo e breve, un tempo dedicato e che, dunque, non può venir deluso; il racconto richiede un tempo che non ammette interruzioni, se non in rari casi. Ne sono un esempio i thriller, talvolta, i racconti che – e non è la regola – si reggono su di una trama.

Ora, forse è stata la lettura di Cameron, forse si è creato il momento giusto per questa lettura. E nel momento in cui questo è avvenuto, per quella strana alchimia che fa incontrare qualcosa che non si stava cercando, e rende quell’incontro felice (una forma particolare di serendipità, mi pare), mi sono imbattuta in un autore italiano di racconti a me sconosciuto, medium un simpatico blog da poco incontrato,  The blooker, di Giulia Depentor che lo ha citato in un articolo del novembre scorso.

L’autore è Paolo Cognetti, sicuramente noto a molti tra i cultori del genere ‘racconto’: e poiché questi sono i casi in cui l’e-book consente di dar seguito immediato, a notte fonda, all’interesse improvviso, mi sono procurata con un click, iniziandone subito la lettura, il suo ultimo lavoro, “A pesca nelle pozze più profonde. Meditazione sull’arte di scrivere racconti”, editore Minimum Fax.

Mi era parso, da subito, che quel libro avrebbe potuto dirmi qualcosa di importante sulla mia relazione con il genere, qualcosa che proprio in quel momento ero in grado di ascoltare.

Un libro ‘sul’ racconto, dunque, in luogo di un libro ‘di’ racconti, che si sta rivelando una lettura molto bella, e sta fornendo parole anche a ciò che avrei voluto esprimere senza riuscire a mettere a fuoco il pensiero.

Questo libro mi sta restituendo molte tra le più belle letture del genere, autori che avevo dimenticato (Raymond Carver, ad esempio) e autori che un retropensiero mi fa desiderare di riprendere ma che restano sempre in attesa, destinati ad essere riletti chi sa mai quando (Hemingway, ma anche, come detto, Melville) o scrittori a me sconosciuti (Grace Paley) o mai davvero frequentati, iniziati e lasciati cadere, come è avvenuto con Alice Munro.

Cognetti regala una scrittura che è difficile lasciare mentre, nel contempo, la stessa si fa interrompere dal bisogno di rimanere sulle parole e lasciarle depositare, dar loro il tempo di essere assaporate e comprese per poterle conservare.

Ne leggerò sicuramente i racconti, già certa che si tratterà di qualcosa di buono.

Nel frattempo, mentre la serendipità agiva, e io non sapevo ancora che mi sarei diretta da tutt’altra parte, mi dedicavo esattamente alla ricerca di altro.

Nel corso di un secondo piccolo passaggio casuale in libreria (quelle cose così, sabato mattina, appuntamento per un caffè con le amiche a Piazza Pola, arrivata in anticipo, cosa si può fare di meglio che rifugiarsi dentro la libreria Canova? Dopotutto, quindici minuti sono un tempo reale) ho trovato, stranamente in vista, sul tavolo che solitamente, nelle librerie, è occupato dalle novità editoriali, “Un angelo alla mia tavola” di Janet Frame, Neri Pozza 2010. Bravo il libraio, non c’è che mettere un libro in quel luogo, per riproporlo.

verso un altra estate_janet_frame_recensioneAvevo recensito tempo fa, di Janet Frame,  “Verso un’altra estate, un libro molto particolare, pubblicato, per volontà dell’autrice, solo dopo la sua morte, tralasciando la sua autobiografia che, ora, ho iniziato a leggere: la voce che racconta, semplice, piana, sciolta, è incredibile. Sarà una lettura lunga e lenta; e, guarda caso, mi pare un “racconto”, perché sembra averne la struttura, lungo settecento pagine, che dunque mi gusterò senza fretta, cercando di fare in modo che le interruzioni, il momento di volta in volta di riporre il libro, non provenga da disturbo altrui.

Mi propongo anche di fermare per un po’ la mia, come si dice, quella cosa di chi ammassa accumula conserva, prende, tiene, stringe.

La mia scorta di libri si sta facendo eccessiva, per mole e per varietà, mettendo le mie letture a rischio. Dovrò accontentarmi del mio quaderno, dove segno i propositi di lettura di mio interesse, debole strumento per fronteggiare i momenti di, appunto, quello che si chiama quella cosa lì, se mi viene in mente la parola correggerò queste righe. Ci siamo capiti, credo.