Alcune di queste cose sono accadute, e altre erano sogni.

Penelope Mortimer, “La signora Armitage”, Minimum Fax

Peter, Peter, gran sbafazucchiniLa signora Armitage,
Aveva una moglie che gli era di cruccio:
la chiuse nel secchio, fra bucce e semini
e là se la tenne, per sempre al calduccio”
(Filastrocca popolare inglese)

 E’ una storia che, pubblicata per la prima volta nel 1962, qualunque donna, e qualunque uomo, oggi come ieri, riconosce. Con divertimento amaro. Con grande empatia, alla fine, quando di che ridere non resta più nulla anche se un faticoso sorriso, di condivisione e comprensione, ci può stare. Come a dire che la vita, quella vera, è tanto ma proprio tanto faticosa, e si va avanti.

Non è la tragedia che, in qualche modo, dentro una storia, conferisce una statura da protagonista, assegna un ruolo a chi la vive. Non per caso si amano i drammoni, dall’opera lirica al teatro, e se le varie Madame Bovary assurgono a una qualche statura idealtipica è perché, almeno, muoiono, ‘devono’ morire (o uccidere o far morire qualcun altro, cose così. Al meglio è una strage).

La statura tragica è qualcosa che la nostra Signora Armitage per sé non potrebbe ammettere; non è una banale eroina che necessita della tragedia per assurgere a un ruolo, e proprio per ciò tiene la scena in modo magistrale, anche se lei non lo sa, o meglio anche se lei e tutte le altre non lo sanno.

Parla in prima persona. Racconta, ricostruisce il proprio percorso attraverso spezzoni di vita che la mostrano nelle diverse età e situazioni, una ricostruzione che si avvia ‘in favore’, sembra, di uno psicoterapeuta nel cui studio lei si mostra, è la prima seduta, in apertura della storia. Una ricostruzione agita in modo onesto, in apparenza privo sia di sensi di colpa sia di addebiti a terzi.

“Che cosa la mette in ansia, Signora Armitage?”
“La polvere”, dissi.
“Mi perdoni?”
“La polvere, ha presente? La polvere”.

Come mai da subito, presi in un dialogo simpaticamente spiazzante, si ha la certezza di aver a che fare con una donna molto intelligente? E si ha l’impressione che sia il dottore a rimanere spiazzato dal non trovarsi a fronteggiare una donna normalmente nevrotica, o anche semplicemente sciocca. Il mestiere, in questi casi, lo soccorrerebbe.

La signora Armitage racconterà la propria storia, di cui gli incontri di cosiddetta terapia sono una piccola parte, solo una delle tante cose che lei si assume il compito di sbrogliare. Il dottore, in difficoltà a trovare un filo, si appiglia a interpretazioni. Va sul classico:

“Potrebbe darsi che, malgrado quella che potremmo definire un’esistenza molto piena, in effetti lei detesti il sesso? (…) Che ne pensa?”
“Sul serio, lei doveva fare l’Inquisitore” dissi. “Al rogo ci vado subito o più tardi?”

E’ stata una ragazza apparentemente comune; tutti hanno a proprio carico un’esperienza di troppo, ognuno nel campo che gli si confà. È una casalinga; e non ha un nome, né sembra richiederlo. E’ “la signora Armitage”: l’identità mutuata da quella del marito risulterà a chi legge così ovvia che ci si accorgerà solo in seconda battuta di quel fatto centrale: la mancanza di un nome proprio.

Si accoglie il suo non possedere un nome come normale, poiché sembra esserlo per lei, ma è difficile non sottolineare che il “signor Armitage” è il suo quarto marito e dunque questa è la sua quarta identità (la prima, quella da ragazza, può essere stata solo un qualcosa in attesa di essere nominato).

La signora, inoltre, ha avuto un figlio da ognuno dei suoi quattro mariti. Per parte loro, i mariti precedenti, per come appaiono nella storia raccontata allo psicoterapeuta, non avendo più il compito di fornirle un nome da portare, ne sono rimasti a loro volta privi.

Sono: ‘Il Cronista’ del giornale locale, obiettore di coscienza, beveva troppo mentre, per il resto, “era tanto caro”; ‘Il Maggiore’, morto in guerra, un tipo “sobrio, soldatesco, assai intelligente. Leggeva riviste tipo New Writing, Horizon e via dicendo.”; ‘Il Violinista’, Giles, di cui dice di esser stata molto innamorata. Perché dunque lo ha lasciato per Jake? Mah, la signora Armitage non ricorda, trova la cosa normale.

“Dovevo andare avanti e basta, nient’altro! Quando mi è passata la voglia…”
“Quale voglia”
“La voglia di andarci a letto. A quel punto non c’era più niente. Nessun futuro, niente da…”

Tuttavia, gli uomini, nel rapporto con lei, possiedono dei nomi propri. Così, il signor Armitage è Jake; il terzo marito, in quanto compare con un piccolo ruolo attivo nella storia, è Giles.

Il motivo contingente della sua entrata in terapia era stato un disturbo dell’umore che la portava a piangere in continuazione, a vivere in ansia perenne. E’ la moglie di un uomo ricco, uno sceneggiatore di successo. Ha già più figli di quanto socialmente necessario nel suo ambiente, ma sembra tuttavia incapace, secondo il marito, di non desiderare altri figli; e un motivo della crisi sta nel fatto che il marito, Jake, non ne vuole altri.

Per parte sua, lei deve affrontare il fatto che desidera solo piangere; che piange in continuazione, mentre la sua vita consapevole non trova alcunché per giustificare ciò. Qualcosa sì. Ad esempio ‘la polvere’.

Ci saranno altri temi; le infedeltà del marito e il diverso significato che lui e lei danno alla cosa; i tanti diversi significati da dare a tante cose.

Lentamente, passo passo, la signora Armitage racconterà le ragioni di tutti. Si interrogherà sulle proprie.

Dovrebbe essere la storia di una nevrosi femminile, ma – salvo assumere che essere nevrotici sia la normale condizione di vita per tutti – la voce narrante mostra, a colpi di pezzi di vita e di rapporti, una donna che soffre perché sa bene la propria condizione; sa il cerchio entro cui è costretta, sa cosa chiede in cambio di questa costrizione. Sa che il problema è veramente “la polvere”. Sa che le è richiesto che questo sia il problema. Sa tutto.

E risolverà tutto, sul proprio corpo e sulla propria anima. Nel dolore. Quello vero, che comporta, poi, il dover vivere e andare avanti.

Alla fine potrà dire: “Non avevo più paura di lui; non avevo più bisogno di lui. Finalmente lo accettai. Perché era inevitabile”.

Si tratta di una storia metaforicamente (forse) autobiografica.

Alcune di queste cose sono accadute, e altre erano sogni. Ma sono tutte vere, per come io intendevo la verità, e sono tutte reali, per come io intendevo la realtà”.

La rilettura di questo romanzo è inevitabile. Tante cose da veder meglio. Oltre ad una scrittura sapiente, altamente godibile.