
Nicolai Lilin, “Favole fuorilegge”, Einaudi 2017
“Questa storia è accaduta in un lontano villaggio siberiano, nel cuore della taiga, dove regna Amba, che ha le sembianze di una tigre.
Là dove si può camminare tutta una vita senza mai incontrare essere umano, tra paludi infestate di spiriti maligni, sulla rive del fiume Lena, nelle cui acque hanno dimora creature magiche, vivevano due amici (…)”
Mentre leggo, mi raggiunge un ricordo, che non è mio eppure mi appartiene. È un ricordo di luoghi, e tempi, di un’infanzia contadina nel mio Veneto quando, nei dopocena invernali, ci si ritrovava, con i vicini di casa, nella stalla, dove il calore corporeo e il respiro delle mucche regalava un po’ di calore, a “fare filò” – parlare, sparlare, discutere i lavori fatti e quelli da fare, condividere le novità del paese. E raccontare storie.
Mentre le donne facevano la calza, rammendavano, cucivano, le mani sempre occupate, e prima del ritiro per la notte, quando una donna, la più anziana, intonava il rosario e le litanie dei Santi, qualcuno leggeva a voce alta un capitolo di un libro, o raccontava una favola.
Non mi appartiene, quell’infanzia, e non mi appartengono quei tempi, che hanno preceduto la mia storia di vita, eppure sono profondamente miei, sono un vero “ricordo”. Non so come queste cose avvengano ma è così.
Neppure le favole di questo libro saranno appartenute all’infanzia di Nicolai Lilin, nato in Transnistria, ma sono sicuramente il ricordo di una infanzia siberiana dei suoi nonni, inscritte nella sua memoria come racconti vissuti, ascoltati di persona: se qualcuno mai pensasse che siamo unicamente individui e che viviamo unicamente i nostri pochi giorni, credo mi sentirei molto triste per lui. E preoccupata.
Le favole sono il rito che allunga il nostro piccolo tempo, che espande la nostra appartenenza – e per questo, come ogni rito, chiedono di essere ripetute e ripetute, riascoltate all’infinito; chiedono che, se possibile, non una parola venga cambiata.
Talvolta, mi pare che, date le giuste condizioni, potrei anche non leggere altro che favole – oggi, in un tempo che offre di rado la possibilità di poterle ascoltare, un tempo senza favole come queste, veri riti di iniziazione a una cultura separata. Brevi, essenziali, come il genere richiede.
Favole per adulti, in effetti, che dovevano venir raccontate – ogni luogo ha il suo “filò” e le sue storie – in contesti di vita dove non esisteva l’attuale separatezza tra adulti e bambini. Si stava tutti insieme, in un unico luogo – la cucina, la stalla, l’unica stanza che costituiva la casa – e le favole della sera, così come le chiacchiere, erano per tutti. I bambini non venivano isolati. Se qualcosa, qualche racconto, poteva essere riservato solo a loro, ascoltavano tuttavia molto della vita adulta, e assorbivano tutto: le storie, le regole, i casi della vita che avrebbero dovuto affrontare, i mezzi e le strategie da impiegare per farvi fronte; i valori che definivano l’appartenenza al gruppo.
Favole, dunque, con una funzione di conferma per gli adulti e di ammissione all’appartenenza per i bambini; favole che prendevano per mano i piccoli sulla strada che li avrebbe portati, nel tempo di un’infanzia breve, ad essere adulti competenti nella loro comunità; che trasmettevano una identità forte e precisa, che non consentiva alla libertà di nessuno di essere violata. Nate chissà quando e chissà come, per loro tramite il bambino nasceva come individuo, diveniva titolare di un riconoscimento. Prima del suo aver ascoltato, e appreso, il bambino non era, se non un’attesa.
Favole diverse, per apprendimenti da acquisire diversi. Questo piccolo libro ne contiene molti. Storielle morali, parabole. Miti di creazione. Storie di animali con cui l’uomo ha dialogo e commercio. Storie di spiriti maligni e, ma solo talvolta, se sarà il caso, benigni. A determinate condizioni.
“Favole fuorilegge”. La determinazione è appropriata per le narrazione, per i miti fondativi, di qualsiasi cultura di una piccola patria che ponga sé, se non in diretta conflittualità con la legge della cultura dominante con cui è necessitata a rapportarsi, quantomeno in una condizione di separatezza e alterità; che dovrà normare, necessariamente, le regole per gestire il possibile conflitto.
È particolarmente appropriata per queste favole, che fanno riferimento, come, mi pare, tutta la produzione di Lilin, a una cultura separata, a una “sottocultura delinquente”, qualora la si guardi dal punto di vista, formalmente obbligato, della cultura dominante. Riuscendo, attraverso la loro funzione, a chiarire il punto: ogni comportamento che si definisca in osservanza delle norme di una cultura e non come una deviazione, unicamente individuale, dalle regole condivise, possiede, al proprio interno, una coerenza funzionale al tempo e al luogo in cui si realizza. Possiede una giustificazione e una bellezza. Chi abita una cultura aderendovi sa operare scelte, vive bene i suoi affetti, è capace di ridere con gli altri; ha conoscenza delle norme del vivere, delle regole e dei valori che stanno alla base di una vita buona.
Come il buon Vasili, che “non era né furbo né stolto, né coraggioso né vigliacco. Non si rompeva la schiena lavorando per un padrone, e non si univa ai briganti della foresta che combattevano contro il potere dello Zar. Semplicemente viveva come gli aveva insegnato il padre: pescando nel fiume, cacciando nella taiga, rispettando la famiglia e madre natura, e dicendo ogni tanto una preghiera davanti alle icone”
Nulla di strano, dunque, se la Madonna, armata con due pistole, bum bum, deciderà di far giustizia di un prepotente che voleva opprimere il buon Vasili. Altrettanto giusto che il fatto miracoloso sia ricordato e ossequiato.
“Da allora la Madonna armata di due pistole divenne il simbolo dei criminali onesti siberiani, che la considerano la protettrice di tutti coloro che lottano contro le ingiustizie.”
Come nascono le favole? La domanda torna. Necessario, in effetti, pensarle come il frutto dell’invenzione di qualcuno che, ad un certo momento, le offre, assicurandone la veridicità, o non curandosene, confermato in questo da chi ascolta, che a sua volta narrerà la storia udita, e probabilmente, raccontandola a sua volta, inserirà abbellimenti, variazioni, fino a che la storia non sarà diventata una favola, e nessuno potrà più cambiarla. Né, peraltro, reclamarne la paternità. Perché quella storiella sarà diventata una forma del vero.
A quale punto del percorso si trovano le favole di Nicolai Lilin? Non lo so. Per me, lettrice, hanno la loro forma immutabile. Per chi le ascolta, o le ha ascoltate, se così è, se così è stato, ciò non avrà importanza alcuna.
Mi piacerà rileggerle – riascoltare il racconto in cui l’antagonista è lo Zar, nel momento in cui, pur venendogli riconosciuto il diritto a un rispetto formale, il suo comportamento non sarà stato rispettoso dell’autonomia altrui, o sarà stato di vera prevaricazione. Soddisfazione, attesa con fiducia e ottenuta.
Riascolterò, rileggerò, la favola sull’amicizia, quella sul rispetto della natura, della terra, di ciò che è visibile e di ciò che non lo è. Mi verrà detto ancora del rapporto dell’uomo con il suo coltello; incontrerò la violenza, ma mi saranno regalati i valori che permettono di normarne e giustificarne l‘uso.
Troverò nuovamente il dovere, nella caccia, di spartire la preda anche con i lupi, di non tenere più di quanto è possibile portare con sé e consumare. Troverò indicazioni su ciò che è bene e ciò che è male: da un certo punto di vista.
Non troverò molto – ma è sempre così, la sola pecca di molte fiabe – sulle donne, con personaggi che non brillano particolarmente. C’è, sì, una storia che assegna un ruolo chiave a una principessa. La cui morale di chiusura, trasuderà tuttavia (posso dirlo?) una splendida ipocrisia, seminascosta da un sorriso ammiccante.
“La morale di questa storia è piuttosto chiara: senza una donna saggia vicino, anche il più abile degli uomini non vale niente. Questo, almeno, è ciò che si dice in Siberia.”
Ci sta a pennello, la seconda frase, quella che inserisce il dubitativo per la prima: dopotutto, bisogna pur segnalare a chi ascolta quando una prescrizione non va presa sul serio!