Che ne dite di un paese di sole madri, di tutte figlie femmine?

Charlotte Perkins Gilman, “Terradilei”, La Vita Felice 2015

A cura di Franco Venturi

Un libro particolare. Che vale davvero una buona lettura. Un libro “divertente ma inquietante”, ne scrive la professoressa Mary Beard, in un suo articolo per la London Rewiew of Books, riportato nel numero del 31 marzo 2017 di “Internazionale”

Incontro, dunque, per la prima volta Charlotte Perkins Gilman, autrice e studiosa americana, vissuta a cavallo tra ‘800 e ‘900, che ci ha lasciato molte opere delle quali un certo numero tradotte e pubblicate in italiano.

La sua prima opera pubblicata in Italia, “La carta da parati gialla”, storia di una depressione post partum, oggi reperibile in più edizioni, è stata proposta per la prima volta dalla Casa Editrice La tartaruga nel lontano 1976, dunque a una distanza di oltre ottant’anni dalla sua uscita, avvenuta nel 1892; e sarà seguita, nel 1980, sempre da parte di La Tartaruga, dalla pubblicazione di “Terradilei”, mentre altre sue opere in italiano vedranno la luce dopo l’anno 2000. Sempre, peraltro, per opera di piccole benemerite case editrici: Donzelli, La Vita Felice, Kurumuny, Astoria, Quattrosoli.

Charlotte Perkins Gilman in una fotografia di Frances Benjamin Johnston (1900, circa). Wikipedia

Charlotte Perkins Gilman è un’autrice anche controversa, scopro, che chiede di essere collocata nel suo tempo e nella società cui apparteneva. È stata, al tempo, una studiosa di scienze sociali molto nota, tra le cui opere non è mancata la narrativa, principalmente racconti e questo romanzo che, nella sua divertente leggibilità, mantiene tuttavia molte caratteristiche di un’opera a finalità educativa, se così vogliamo dire, a sostegno di un cambiamento della condizione femminile che avrebbe dovuto partire dalle donne e dalla messa in discussione del loro ruolo (assente) nella società; un cambiamento che avrebbe dovuto vedere la donna protagonista, alla pari con l’uomo, persone tra persone.

Da qui, la strategia di un racconto, sulla falsariga dei racconti fantastico-satirici di viaggio dell’800 – viene in mente (e tra le righe Gilman lo cita) “Erewhon”, di Samuel Butler, che mi è tornata la voglia di rileggere.

Un accenno. di passaggio: Erewhon (leggi “no where”, in nessun luogo) è un paese totalmente sconosciuto, in una valle difficile da raggiungere della Nuova Zelanda dove vive un popolo che si presenta come una società ordinata e felice, popolato da persone belle e sane, dove tutto funziona benissimo (almeno in apparenza) ma le cui regole prevedono che chiunque compia un atto antisociale (furto, omicidio, truffa, ecc.) venga curato con amore mentre qualora una persona si ammali verrà gettata in carcere: in Erewhon si ritiene che la malattia sia da ascrivere a colpa personale, un atto, appunto, antisociale, da non consentire. Seguono altre strane norme, che sovvertono il nostro senso comune, e che danno modo all’autore di sottoporre a critica la società vittoriana e farne emergere l’ipocrisia.

Ritornando a “Terradilei”: un libro sicuramente anche divertente. Interessante. Una lettura che porta, quasi inevitabilmente, a seguire poi il sentiero che conduce a Jonathan Swift e al suo “I viaggi di Gulliver”, ma anche a Daniel Defoe, al Robinson Crusoe, per arrivare a “1984” di George Orwell. Una pista. È il rischio che si corre con questo genere di letture.

Samuel Butler

Piccola nota a margine: strano a dirsi, ma “I Viaggi di Gulliver”, come anche “Robinson Crusoe”, vengono considerati libri per ragazzi, cosa che, sicuramente mai è stata pensata dagli autori, e questa “collocazione” costituisce/ha costituito un modo geniale per depotenziarne il messaggio – erano gli anni del socialismo utopico, e questo genere letterario si presentava ideale (credevano loro; e forse lo  è stato) per veicolare una critica della società. Cosa dunque meglio che “ridurli” a favola? L’alternativa – ed è il caso di “Erewhon”, come di “Notizie da nessun luogo”, di William Morris (che non ho mai letto, per il futuro ci spero, se lo trovo) – è farli “dimenticare”, pubblicarli, eventualmente, ma in sordina, cioè ponendo loro una sordina editoriale.

Terradilei”, scritto nel 1915, in realtà, è altro. Appartiene già, a pochi anni di distanza, a un tempo vicino ma diverso, quando nel mondo tutto si stava muovendo verso il disastro, tutto si stava preparando ad un grande cambiamento sociale. La prima guerra mondiale era già in corso.

Un po’ di trama. Il solto viaggiatore solitario, in questo caso, è sostituito da tre amici, Terry O. Nicholson, detto Old Nick, soprannome del diavolo, Jeff Margrave e il narratore, Vandyck Jennings.

Terry, ricco, ama le esplorazioni, ed è aviatore, oltre che donnaiolo impenitente e misogino; Jeff, è un medico, ma soprattutto un biologo; Vandyck, il narratore, si definisce sociologo, e interessato a tutto ciò che abbia a che fare con l’uomo, la sua vita e le sue relazioni: nel corso dell’avventura guarderà ai suoi compagni con profonda amicizia e razionale obiettività, si fa per dire, di giudizio.

Amici per la pelle – si potrebbe dire che si tratta di un’unica persona, in difficoltà a far convivere aspetti diversi della propria personalità – amano viaggiare e, in uno di questi viaggi, scopriranno un Paese, tra impervie montagne, prive di vie di comunicazione con il resto del mondo, popolato da sole donne.

Inizia il dibattito: degli uomini tra di loro, che si stanno avvicinando, e poi raggiungeranno, questo luogo, e si chiedono come può esistere una società solo femminile. Si attendono, dunque, di scoprire dove sono gli uomini, e perché non si vedono. Certi, tuttavia che “ci devono essere”.

Questo interrogativo, e la sua attesa conclusione, che si rivelerà sbagliata, assumono una forma particolare. C’è, sì, la ovvia domanda su come sia possibile l’assenza di uno dei due sessi, dato che la riproduzione umana ne richiede la collaborazione. Ma, fondamentalmente, e con maggior forza, l’incredulità riguarda un altro aspetto del problema: le donne, si sa, sono delle incapaci che non potrebbero vivere senza un uomo che organizzi la società e ne affronti i bisogni pratici.

Sorvolando il territorio, e mentre la popolazione, femminile, richiamata dal rumore dell’aereo, esce dalle case a guardare ciò che avviene, i tre vedono “una terra coltivata in modo perfetto, dove anche le foreste sembravano curate; una terra simile a un enorme parco, e più ancora, un enorme giardino. (…).

Vedono le donne, tutte donne.

“Ma sembrano…perdìo, questo è un paese CIVILE! – insorsi io. Devono esserci gli uomini, PER FORZA!”

“Certo che ci sono – disse Terry. Su, andiamo a cercarli!”

I tre atterrano, sistemano l’aereo, e si avviano. A un certo momento, sentiranno delle risatine, tra gli alberi, scopriranno tre ragazze, ci saranno i primi approcci, il tentativo di afferrarne una, che fallisce; la rincorsa, che fallisce a sua volta. L’entusiasmo. Ragazze! Una terra di ragazze!

I tre avanzano, entrano in città, ne ammirano la pulizia, la bellezza delle costruzioni, l’ordine, e si convincono ancor più che ci devono esse gli uomini; giungono nella piazza principale e vengono circondati.

Donne. Tutte donne, ma… Non erano giovani. Non erano vecchie. Non erano, nel senso che si intende comunemente, belle. Non erano niente affatto feroci. E tuttavia, guardando quelle facce, calme, serie, intelligenti, senz’ombra di paura e anzi molto energiche e risolute, io provai un sentimento stranissimo: un sentimento molto antico, che cercai e cercai nella memoria e alla fine riconobbi. Era quello sgomento di essere irreparabilmente in torto che avevo provato tante volte da ragazzino (…)”

I tre amici verranno accolti, sì, dopo un benvenuto caratterizzato da un cortese, anomalo, efficace uso della forza a loro inaspettato danno. Che non lascia via di fuga.

La permanenza dei tre nella Terradilei durerà un anno. La storia di quel popolo verrà conosciuta, e poco importa la sua assurdità razionale; importante sarà il fatto che le farà da contraltare quell’altra assurdità, che consiste nel suo essere perfettamente credibile, auspicabile, rasserenante. E anche no. Anche, sì, inquietante.

Accadranno cose, nel corso di un anno nella Terradilei, segnato dallo scambio di informazioni sulle reciproche società e sullo sforzo, che per uno dei tre sarà vincente, di accogliere quel mondo, da cui un altro verrà, in effetti, espulso. Anche l’amore farà parte di una storia tutta da leggere, dove la soluzione al problema della riproduzione, ovviamente, sarà di improbabile fantasia; mentre le idee dell’autrice, in questa sua immaginaria società, prendono sostanza in qualcosa che, credo, noi oggi in parte rifiuteremmo, ma che sicuramente ci interroga.

 Mentre tutto questo ci viene raccontato (da una voce maschile, e con lo stupore maschile per ciò che le donne sono, interpretati, non dimentichiamolo, da una donna) ciò che colpisce, che fa sorridere, e fa <non> sorridere, è il viaggio che compiremo nel nostro odierno tempo di donne, nel confronto tra una scrittura, una voce, incredibilmente attuali e un’immagine di donna del primo novecento (negli Stati Uniti, peraltro; e nella classe borghese di quella nazione), che ci viene restituita; e che riconosceremo. Non è la nostra, ci diciamo, non oggi: ma la riconosciamo.

“La qualità di questa storia”, dice il curatore Franco Venturi nella Prefazione, “sta nel rivelarci il reale: è necessario prima conoscere la società che si intende trasformare.”

Riconosceremo la strada compiuta; ma anche quel pensiero maschile che ancora ci appartiene, neppure tanto nel profondo, senza molto bisogno di scavare.

Inquietante, sì, ha ragione Mary Beard. Si sorride. E anche no.