E. M. Cioran, La caduta nel tempo, Adelphi 1995
Pubblicazione e Traduzione sotto la direzione di Mario Andrea Rigoni
Devo confessare una fascinazione che mi prende, sempre, quando leggo Cioran. Mi prende lo stupore per la densità e la precisione delle sue parole, che non di rado incontrano, regalando un senso di vertigine, l’impossibilità di accogliere ciò che scrive, ne verrebbe a rischio ogni serenità mentale; sento la tranquillità con cui infine sarà non solo possibile ma addirittura facile, direi risolutivo per la propria pace interiore, accoglierle, aderendovi nel sentimento profondo della meta raggiunta, in cui il pensiero può finalmente riposare: avremo di fronte un pensiero sicuramente non consolatorio ma a cui dire, va bene, è così; con la possibilità di scoprire l’altra faccia, una delle tante altre facce, che troveranno cittadinanza nel procedere, di asserzione in asserzione, sul metro del “dubbio programmatico” – ed ecco risolta ogni aporia; vedo una via che si allontana, alle mie spalle – è stata percorsa, e dunque non c’è più – come parte di una strada che sarà ad ogni passo superata, di fronte una nuova strada.
I temi: tutti quelli – ma non sarà sempre lo stesso tema, diversamente declinato? – che hanno a che fare con l’essere e con l’essere al mondo come coscienza di sé, e iniziamo pure con Dio e le sue malefatte, sembra dirci il nostro, in quel Giardino dov’erano l’albero della Vita e l’albero della Conoscenza del Bene e del Male. quello i cui frutti erano stati proibiti; quel luogo e quella condizione in cui “il nostro progenitore frequentava Dio, lo spiava ed era da lui spiato. Non poteva venirne niente di buono”.
I deliri produttivi di un insonne cronico che ha attraversato il secolo, rimanendo infine a vivere in Francia, dal 1941, come apolide: e non so perché a me pare che debba esservi morto da apolide, perché si tratta di una condizione che ci sta tutta con la persona, anche se nella realtà non può essere stato così. Non Emil Cioran che è considerato uno dei migliori prosatori di lingua francese.
Accreditato come filosofo, vicino al pensiero esistenzialista unicamente per contingenza storica, cui difficilmente avrebbe potuto aderire essendo, di sua natura, una mente incapace di riposare su una ideologia, sarà amico – e controfigura? – del suo conterraneo rumeno, e coetaneo, Eugène Ionesco, in un duetto in cui l’uno ha giocato, nel suo teatro, il tema del confronto con la morte, dell’ossessione della morte mentre l’altro ha “risolto” sul piano filosofico, divenendo un teorico del suicidio, del diritto-dovere al suicidio, da tradurre in un potente strumento di vita: la consapevolezza di questa possibilità, tutta, sempre, nelle mani dell’uomo costretto nella vita, consentirà di protrarre quella vita, di esaminarne le scelte e alla fine, di fatto, accoglierle, e vivere.
Nato nel 1911 in Romania, dopo una fase giovanile in cui, studente a Berlino, lo attrasse il movimento nazista degli albori, da cui subito si allontanò, espresse in un suo scritto idee che lo fecero tacciare di antisemitismo e finanche di razzismo, che egli corresse subito, professando amicizia al popolo ebreo ben prima che fossero noti gli orrori nazisti, e mantenendo per la vita un senso di grande vergogna per quella che ha vissuto come una imperdonabile caduta del suo pensiero. Fu uno spirito curioso che naturalmente empatizzò in gioventù con le idee e con i fermenti filosofici che si muovevano nel suo tempo, comunismo compreso, senza aderire ad alcuno per una profonda capacità di coltivare il dubbio – e sicuramente per il suo profondo pessimismo sulla condizione umana, così come su di un Dio che avrebbe dovuto starsene nei suoi cieli e chissà cosa gli prese di darsi alla creazione.
Eppure. Al di sotto di tutto ciò, è inevitabile, dopo aver letto le sue pagine, sentire una possibilità di pacificazione con la vita, sia pur data da una disperazione oltre la quale possono starci senza conflitto sia una vita buona sia una possibilità ulteriore di pensiero, mai definitivo.
Non so perché, ma non sono mai riuscita a sentire Emil Cioran come l’uomo dalla grande infelicità di esistere che certamente è stato; che certamente costituisce la narrazione che fece, nel corso di tutta la sua vita, di sé. Nella lucidità del suo pensiero, nella bellezza e incisività della sua scrittura, è presente – e voluta, niente di meno in una scrittura come la sua, che cela rivelandola la estrema cura del testo e della scelta delle parole – un vena ironica, che arriva a sfiorare l’umorismo.
La sua fu una vita tranquilla, con la sua compagna Simone Boué, in un dignitoso appartamento di Parigi, che amava, circondato di relazioni con tutta la realtà intellettuale d’Europa. Morì nel 1995, senza mai più poter ritornare nella sua nativa Transilvania, dove le sue opere erano state proibite mentre a lui il regime comunista, terminata la guerra, tolse la cittadinanza. Quando avrebbe potuto tornare – dopo il crollo, violento, del regime di Ceausescu, nel 1989 – l’età e la malattia non glielo permisero: la sua mente lo aveva lasciato, colpita da demenza senile.
In questo “La caduta nel tempo”, una raccolta di nove saggi, si ritrovano molti suoi temi, direi tutti i temi che hanno a che fare con l’esistere nel tempo, e dunque per la morte. Ma non solo. Vi si trova anche, come sempre, la possibilità di ascoltare e non condividere; vi si trova la possibilità di proseguire, come in un dialogo, in uno scambio che avrà acquistato la serenità data da una utile esperienza di ascolto libero: il maestro non avrà parlato ex cathedra; si sarà, dialogicamente con se stesso e con noi, utilmente contraddetto.
Poiché nulla giustificherebbe una sintesi, da parte mia, del suo pensiero né, peraltro, per quanto mi riguarda, una scelta, per esigenze di spazio, tra questi saggi, non rinuncio a proporvene gli incipit, certa che susciteranno, se letti, la curiosità di sapere come andrà a finire.
“La caduta nel tempo”
1 – L’albero della vita
“Non è bene che l’uomo si ricordi a ogni istante di essere uomo. Già è male concentrare l’attenzione su se stessi; ma è peggio ancora concentrarla sulla specie, con uno zelo da ossessi: significa attribuire alle miserie arbitrarie dell’introspezione un fondamento oggettivo e una giustificazione filosofica. Finché ci si limita a torturare il proprio io, si può sempre pensare che si ceda a un capriccio; ma quando tutti gli io diventano il centro di una rimuginazione senza fine, indirettamente si ritrovano generalizzati gli inconvenienti della propria condizione ed eretto a norma, a caso universale, il proprio accidente. (…)”
2 – Ritratto del civilizzato
L’accanimento a bandire dal paesaggio umano l’irregolare, l’imprevisto e il difforme rasenta la sconvenienza. Che in certe tribù si provi ancora piacere a divorare vecchi troppo ingombranti, possiamo senz’altro deplorarlo; ma non accetteremo mai di perseguitare sibariti così pittoreschi, senza contare che il cannibalismo rappresenta un modello di economia chiusa e, al tempo stesso, un’usanza destinata un giorno o l’altro ad attrarre un pianeta gremito. (…)”
“Del tutto diversa ci appare la situazione degli analfabeti, massa considerevole, attaccata alle sue tradizioni e ai suoi privilegi, contro la quale si infierisce con una virulenza che nulla giustifica: è poi un gran male non saper né leggere né scrivere? (…)”
3 – Lo scettico e il barbaro
Se non si stenta a immaginare l’intera umanità in preda alle convulsioni o, quanto meno, allo sgomento, in compenso significherebbe tenerla in eccessiva stima credere che essa possa, nella sua totalità, elevarsi mai al dubbio, generalmente riservato a pochi reprobi di rango. Eppure, essa vi accede, in una certa misura, nei rari momenti in cui cambia dei, e in cui gli animi, sottoposti a sollecitazioni contraddittorie, non sanno più quale causa difendere né a quale verità infeudarsi. (…)”
4 – Desiderio e orrore della gloria
“Se ognuno di noi confessasse il suo desiderio più segreto, quello che ispira tutti i suoi progetti e tutte le sue azioni, direbbe: «Voglio essere elogiato». Nessuno però vi si lascerà indurre giacché è meno disonorevole commettere un abominio che proclamare una debolezza così miserevole e umiliante, nata da un sentimento di solitudine e di insicurezza così umiliante del quale soffrono, con uguale intensità, i reietti e i fortunati. (…)”
“La malattia è universale; e se Dio ne sembra indenne è perché, ultimata la creazione, non poteva aspettarsi lodi, per mancanza di testimoni. È vero però che se le è tributate da sé, e alla fine di ogni giornata. (…)”
5 – Sulla malattia
Quali che siano i suoi meriti, una persona sana delude sempre. Impossibile dare il minimo credito alle sue parole, cogliere in esse altro che pretesti o virtuosismi. Non possiede l’esperienza del terribile che sola conferisce un certo spessore ai nostri discorsi, come non possiede l’immaginazione della sventura, senza la quale nessuno potrebbe comunicare con quegli esseri <separati> che sono i malati; vero che, se la possedesse, non sarebbe più una persona sana. Non avendo nulla da trasmettere, neutro fino alla rinuncia, si accascia sulla salute (…)”
6 – La paura più antica. A proposito di Tolstoj
La natura si è mostrata generosa soltanto verso coloro che ha dispensato dal pensare alla morte. Gli altri li ha lasciati in balia della paura che di tutte è la più antica e la più corrosiva senza offrir loro, e nemmeno suggerire, i mezzi per guarire. Se è normale morire, non lo è indugiare troppo sulla morte e pensarci a ogni occasione Colui che non ne distoglie mai la mente, dà prova di egoismo e di vanità poiché vive in funzione dell’immagine che gli altri si fanno di lui, non può accettare l’idea che un giorno non sarà più niente, (…) Non c’è un po’ di ineleganza nel temere la morte? (…)”
7 . I pericoli della saggezza
“Quando si vede quale rilevanza assumano le apparenze per la coscienza normale, è impossibile sottoscrivere la tesi del Vedānta, secondo la quale «la non distinzione è lo stato naturale dell’anima». Ciò che si intende qui per stato naturale è lo stato di veglia, quello appunto che non è in alcun modo naturale. Il vivente percepisce esistenza ovunque; non appena è «sveglio», non appena cessa di essere «natura», comincia a scorgere il falso nell’apparente, l’apparente nel reale, finendo col ritenere sospetta l’idea stessa di reale. (…)”
8 – Cadere dal tempo
“Per quanto mi aggrappi agli istanti, gli istanti si sottraggono: non ve n’è neppure uno che non mi sia ostile, che non mi ricusi e non mi significhi il suo rifiuto di compromettersi con me. Tutti inabbordabili, essi proclamano l’uno dopo l’altro il mio isolamento e la mia disfatta. (…)”