Jonathan Littell, “Le Benevole”, Einaudi
Traduzione di Margherita Botto
Ho finalmente portato a termine la lettura, a cui mi ero impegnata, di un libro che, nel corso degli ultimi quattro anni, mi ha altamente trattenuta e respinta; un libro che, dalla sua uscita nel lontano 2006, ha riscosso un grande e controverso interesse.
Un libro <pesante> per contenuti e per mole: 943 pagine sono molte, ma ci stanno tutte; e neppure si potrebbe dire che siano troppe considerando la scelta di cura ossessiva, di insistenza sui particolari con cui la storia viene sviluppata.
Volendo, un’osservazione potrebbe essere fatta sull’ultima pagina, che si segnala per una estrema, inattesa sintesi, splendidamente rivelatrice.
Non una pagina, non una riga inutile, in questo libro.
Posso dire tutta la mia comprensione, e pietà, per l’editor che ne ha curato la pubblicazione?
La storia:
Maximilien Aue, personaggio di invenzione, narrerà, ormai anziano, la sua storia di ex ufficiale nazista dalla sua tranquilla esistenza, sotto falso nome, di imprenditore e padre di famiglia stimato nella comunità in cui vive, in Francia.
Il lettore conoscerà così il tempo della sua vita che va dall’adesione al nazionalsocialismo (scarsamente spontanea, necessitata dal bisogno di non essere accusato di omosessualità e, di fondo, comunque convinta), iniziando con la sua partecipazione all’organizzazione, come ufficiale inquadrato negli Einsatzgruppen[i] nel corso dell’Operazione Barbarossa in territorio sovietico, delle eliminazioni di massa delle popolazioni ebree, con l’aiuto, quale mano d’opera per le esecuzioni, dei fascisti ucraini.
Ne seguiremo poi le vicende fino alla disfatta di Stalingrado, al suo fortunato ritorno a Berlino e fino alla caduta del Terzo Reich.
Al suo fianco, nei momenti cruciali, vi sarà l’amico Thomas Hauser: la sua ombra protettrice, la sua anima nera e, in più occasioni, il suo salvatore lungo tutta la tragedia della guerra.
Un personaggio interessante, Thomas Hauser, il solo che, in tutta la storia, verrà fornito della capacità di agire a proprio vantaggio senza avanzare motivi ideali né, peraltro, scusanti. Thomas Hauser viene rappresentato come un cinico realista, capace di riconoscere la realtà e muoversi a suo agio nel sistema. È il solo personaggio <sano> e, vorrei dire, <sanamente colpevole> di tutta la storia; un personaggio che presenta sé senza infingimenti, che non avanza scuse né con sé né con altri, essendo tuttavia capace, anche a proprio rischio, di dare amicizia. E in proposito, la chiusura della storia, sarà emblematica.
Dopo Stalingrado, e con l’aiuto di Thomas Hauser, Maximilien Aue era rientrato a Berlino dove farà carriera, affiancando Adolf Eichmann nell’organizzazione dei campi di sterminio. E sarà a Berlino, con Adolf Hitler nel bunker, alla fine di tutto, nel corso di una grottesca consegna di medaglie in cui la fantasia dell’autore ha inserito una altrettanto grottesca invenzione e fuga del nostro protagonista – impossibile non farsi scappare la mano, immagino: la storia finirà, classicamente, nei pressi dello Zoo di Berlino, tra le macerie, sotto le bombe, con gli animali in fuga.
Alla chiusura il lettore arriverà, tuttavia, dopo essere transitato attraverso la storia di vita privata di Maximilien Aue; una storia che fin dall’inizio affiorava, mescolando il proprio malessere con il malessere degli stermini, della follia, degli orrori e con la traduzione del tutto in sintomi fisici.
Una storia di famiglia problematica, segnata da un amore, incestuoso, con la sorella gemella Una.
Una storia di disturbi psicosomatici (che dovrebbero descriverci l’insostenibilità del tutto per il nostro delicato, sensibile, colto, melomane, intellettuale protagonista? Beh. Salvo inondare il lettore di vomito e merda, non lo fanno). E se le parti del libro – Alemanna I e II, in cui si narrano gli stermini degli ebrei russi, le fosse comuni, le file di gente che si avvia a venir assassinata, con i bambini portati a morire in braccio da genitori che cercano di tenerli tranquilli di fonte all’indicibile, all’insostenibile e all’inevitabile; in cui si narrano l’impazzimento dei soldati tedeschi che non riescono, o ci riescono, ad affrontare, a darsi ragione, dell’inaffrontabile – restituiscono, per l’appunto, merda, piscio, sangue, odori, crampi, vomito; se tutto questo è com’è, in dirittura d’arrivo e in prossimità del crollo finale, le pagine del libro saranno infettate da analoghi/diversi contorcimenti e umori corporali tuttavia, ora, totalmente sterilizzati, che nulla più dicono al lettore dai sensi annichiliti; in pagine pedanti e schifose che vengono sfogliate (sbrigati dai!) senza coinvolgimento qualsivoglia.
Sono pagine che non contengono neppure il coinvolgimento della repulsione – ah, dimenticavo, si tratta di sogni e fantasie erotiche, e malesseri a tema erotico, riguardanti la sorella, quando il nostro cerca riparo, o quello che è, nella casa vuota di Una e di suo marito, già fuggiti in Svizzera.
La storia privata del protagonista aveva già preso il primo piano quando, dopo il ritorno a Berlino, ferito, Maximilien, volendo raggiungere la madre e il suo secondo marito, in Francia, per una convalescenza, si era ritrovato di fronte alla morte dei due, assassinati, ed era dovuto fuggire perché ritenuto responsabile di quel duplice omicidio e ricercato da due ostinati Commissari di Polizia che, nel tempo, non demorderanno (nipotini tedeschi dell’Ispettore Javert?).
Il libro interroga, o vorrebbe farlo, immagino, sul tema del male. E non oso immaginare quale prova debba essere stato, per l’autore, lo scriverlo.
Ho terminato, dunque, con grande fatica e con grande lentezza, questa lettura; non, come dovrebbe essere, per interiorizzarla, per ascoltarla meglio e per rifletterci: proprio per la necessità, anche, di assumerla a piccole dosi. In molte fasi si è trattato di una lentezza che mi sono imposta perché, di suo, questo libro, pur se non sempre, tiene legato il lettore. Lasciarlo può essere faticoso tanto quanto continuare a leggerlo anche quando si affrontano pagine di un orrore senza confini.
In altre parti ho invece, come si dice, “tirato via” per la noia mortale a fronte di descrizioni insistite, di oscenità prive di qualunque possibile presa sul lettore, fine a se stesse e apparentemente inutili – se non, immagino, per comunicare il totale annichilimento del protagonista senza che sia chiaro se ciò sia la risultante delle esperienze affrontate nel suo ruolo di ufficiale nazista o dei suoi demoni e della sua storia personale.
Incredibile la commistione tra una storia che vorrebbe raccontare l’orrore della guerra nazista e dello sterminio dal punto di vista del soldato, per l‘appunto, nazista; e raccontare l’abbrutimento, la distruzione del sé che questo ha comportato per chi vi ci si è trovato – la morte fisica delle vittime nell’orrore; la morte psichica dell’assassino – e insieme la storia di uno psicopatico che, posto dagli eventi in una condizione che conteneva perfettamente le sue ossessioni, ha potuto, molto poco credibilmente, vivere nella menzogna una buona lunga vita familiare e sociale.
Niente torna, in questo romanzo, se non la eccezionale capacità del suo autore di maneggiare l’orrore, i fantasmi, della storia e della psiche individuale. Di mostrare gli uni ed esibire l’altra, sia fingendo sia riconoscendo connessioni, proprie e improprie.
Mi interrogo: a modo suo si tratta di un noir – molto a modo suo: forse l’autore non ha dimensionato gli aspetti storiografici, dettagliatissimi, tali da far pensare che abbia avuto a disposizione <davvero> un memoriale, un diario su cui inserire, cosa? Un triste noir improprio, senza redenzione per nessuno e senza soluzione?
Vediamo, dunque: non mi ritrovo sola, nella, chiamiamola critica, che deve comprendere il dato del dover riconoscere una scrittura magistrale, da unire ad una struttura narrativa altrettanto magistrale.
Per quanto mi riguarda si tratta, semplicemente, di un’opera di grande respiro e intellettualmente scorretta, capace di far molto male. E lo dico con il diritto che mi viene dall’aver acquistato e letto questo <romanzo>.
Nei precedenti post in cui ho anticipato questa lettura, avevo ripreso un commento critico di Wu Ming1 che tuttavia concludeva con l’affermazione “Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si deve ignorare, che va letto e affrontato.”
Io non lo so. Non posso rientrare dall’averlo letto: e dunque non so se il lettore ne uscirà indenne, se io ne sono uscita indenne.
Per quanto mi riguarda, avevo scritto, impegnandomi a completare la lettura di questo libro, e a fronte dell’<invito> che il protagonista rivolge al lettore a riconoscersi in lui, in forza della comune umanità (“Ma via, se vi dico che sono come voi!”) qualcosa che sottoscrivo ora pienamente:
Ci sto! Vedo! E non cadrò nel tuo trabocchetto. Ti dimostrerò che no, mentre, e va bene, non posso sapere se io, in situazione, non sarei a mia volta caduta, tu, che fingi la tua ammissione di colpevolezza e chiedi la mia complicità, potevi non cadere. Io, nel caso, sarei chiamata a poterlo. Tu lo avresti potuto.
Ecco: in quel <potere> vi è tutta la tua colpevolezza; tutta tua, senza remissione; ed è falsa l’ammissione che ne compi mentre cerchi un’assoluzione per te stesso attraverso l’artificio del tutti colpevoli nessun colpevole.
Un invito a leggere questo libro? Non so. Come detto, non posso rientrare dall’averlo letto. Posso solo dire che non so se questo libro manterrà il suo posto nei miei scaffali: certo, non lo regalerò. Né lo presterò. Altrettanto certo: non è un libro qualunque.
Qui, qui e qui, per chi lo volesse, i miei precedenti riferimenti a questo libro. Finalmente chiuso.
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[i] Organizzazioni militari deputate a rintracciare ed eliminare gli ebrei e, in genere, coloro che venivano ritenuti nemici del nazionalsocialismo o inaccettabili come membri della razza ariana.