“…dicerie che scompaiono in un soffio, come i fiori di tarassaco (…)

Ivy Compton-Burnett, “Il capofamiglia”, Fazi editore 2020. Traduzione di Manuela Francescon

 

Attendendo le prossime pubblicazioni, e traduzioni di libri di Ivy Compton-Burnett, appena terminata la lettura di “Il capofamiglia”, ho con molto piacere trovato tra i miei contatti due belle recensioni di questo romanzo (qui e qui). Con piacere, dico, e molto, perché si tratta di un’autrice, una grande del ‘900, che a lungo, e inspiegabilmente, era stata assente dai cataloghi delle CE italiane, con poche benemerite eccezioni che, viene da pensare, abbiano dovuto recedere dal proseguire a pubblicarla non avendo incomprensibilmente trovato riscontro da parte dei lettori.

Dopo esser stata proposta fino agli anni ’90 dalle maggiori CE, con successo, è stata di difficile reperibilità fino a quando, lo scorso anno, Fazi ha riproposto “Più donne che uomini”, facendo seguire, quest’anno, “Il capofamiglia”, romanzo in precedenza mai editato in Italia.

Uno sguardo alle edizioni italiane di opere di Ivy Compton-Burnett successive agli anni ’90, vede titoli sparsi, segnatamente presente la Casa Editrice La Tartaruga, storico marchio della letteratura femminile nato nel 1975, che nel 1977 aveva pubblicato Genitori e figli, seguito, nel 1987 da Una famiglia una eredità e da Il buio e le luci nel 1996.

Dieci anni, dunque, tra una pubblicazione e l’altra, di una Casa Editrice ben intenzionata a proporre questa autrice. [i]

Ci avevano provato anche Adelphi (1999 e 2000), Fabbri (2004) e più di recente, Garzanti (2010).

Ora, ho scelto di proporre a mia volta la lettura di questo romanzo, uscito nel 1935 (dopo aver proposto alcuni anni fa, “Un’eredità e la sua storia”, edizione Adelphi: qui)  perché è davvero importante che molte voci, anche piccole, si aggreghino per restituirci queste opere; e perché, ad ogni lettore, e pure ad ogni lettura, Ivy Compton-Burnett si rivela nuova.

La storia: un filo di trama, una traccia, solo utile a sostenere la rappresentazione di una famiglia e di una comunità attraverso dialoghi di amaro umorismo al vetriolo.

Un avvenimento, dovutamente luttuoso, farà da detonatore di verità dentro la famiglia di Duncan Edgeworth – “padre lunatico, anaffettivo e tiranno” – ci dice di lui la seconda di copertina, – composta da Ellen, la moglie “dimessa e timorosa”, dalle due figlie Nancy e Sybil, la cui sottomissione-ribellione si esprime con stili diversi e, buon ultimo ma non tale, dal nipote Grant, giovane gaudente, a far da controcanto alle imposizioni e alla mentalità patriarcale dello zio.

Intorno, una comunità come dev’essere, rappresentata attraverso i ruoli prescritti e gli status connessi: il parroco e la sua famiglia, il medico, la signorina catechista, l’istitutrice; con le ragazze da marito e la dovuta vocazione al nubilato femminile. Faranno da ordito al tessuto della storia le attività che regolano le relazioni e gli obblighi, familiari e sociali: il pranzo in famiglia, la Messa domenicale, le attività di carità, gli impegni di vicinanza tra famiglie quando un lutto, o una nascita, o un matrimonio, o un problema segnano una vita.

Troveremo le visite da fare e da rendere, gradite o meno, necessarie a non farsi gli affari propri e partecipare, con amicizia e godibilissima comprensione per gli affanni e le cadute altrui, ben sapendo come, prima o poi, ognuno ricoprirà a sua volta il ruolo di colui o colei di cui si sparla.

C’è affetto, in tutto questo, tra i partecipanti? Al di sotto delle caustiche punteggiature dei discorsi, della feroce ironia che particolarmente in famiglia disvela i giochi che ne regolano le relazioni, gli egoismi e le anaffettività? Credo di sì: debbono esser sfuggiti, senza intenzione alcuna, alla signorina Ivy.

Il lettore prova, nella lettura di queste pagine, quel tipico piacere sanamente ignobile, condito da un pizzico di crudeltà, che solo la gioia maliziosa del pettegolezzo, che ci rassicura sui nostri peccati, ci può dare: Agli altri non va meglio! Anche loro, dopotutto…!

Se non si ride, non davvero, certo il sorriso scappa, un po’ a denti legati; e il ghigno, amaro fin che si vuole ma sempre fonte di piacere.

Almeno questo alla buona società patriarcale, con ancora un residuo di epoca vittoriana, va riconosciuto: avevano capito tutto; e disponevano di regole di comportamento e ritualità atti ad assicurare che la polvere se ne stesse al proprio posto, sotto il tappeto. Era un buona, efficace ipocrisia, sana ed utile al vivere familiare e sociale, parrebbe.

Ma che dire: è la mia lettura, di oggi; non è stata la mia lettura in un tempo lontano, quando il mio sorriso, giovane, era molto meno conciliante e, impegnata a lottare per veder giungere giorni nuovi per le donne, vedevo nei romanzi di Dame Ivy una denuncia femminile della società e della famiglia patriarcale.

Esercizio inutile il chiedersi quale fosse il messaggio dell’autrice; che poi, perché mai avrebbe dovuto essere univoco, o chiaro a lei stessa. Sta tutto qui il marchio dell’arte; e la scrittura di Ivy Compton-Burnett è arte alla sua massima espressione, senza sbavatura alcuna, non una parola in meno o in più o dove non dovrebbe stare.

Le sue pagine parlano, e continueranno a parlare anche al nostro tempo e al nostro mondo, e alle nostre diverse età, nel mentre ci presentano, apparentemente senza proposte interpretative, una, sempre la stessa, realtà familiare e sociale; quadri d’interni del mondo della piccola nobiltà-buona borghesia inglese di paese, denudata attraverso dialoghi serrati, asettici e feroci, in un modo che potremmo definire burocratico, senza alcuna ricerca psicologica che differenzi un personaggio dall’altro, che caratterizzi le diverse voci.

La risultante: Piena Luce. Fredda. Su tutto. Nessuna ombra ad oscurare angoli o cose taciute: sulle persone, sui piccoli e grandi egoismi così come sulla tolleranza di quelli altrui.

“Padre, tu ed io dovremo piangere la mamma da soli. Nessun altro sente la sua mancanza. Lei vorrebbe che ci sostenessimo l’un l’altro. (…)”

“Non mi pare il caso di andare in giro con il cuore in mano!”

Forse, dove nessuno si salva ci salveremo tutti; oppure, a che varrà scandalizzarsi, moraleggiare, dove non esiste salvezza possibile per alcuno.

Volendo indicare con un aggettivo l’approccio al mondo di Ivy Compton-Burnett la parola che mi intriga è: Ferocia. Mi pare sia la sola parola capace di esprimere lo scoppiettio di frasi brevi, essenziali, che lasciano l’interlocutore senza riparo, salva la possibilità di ripagare con uguale moneta. E la verità psicologica esplode, senza alcun bisogno di venir decrittata, senza alcun bisogno che se ne parli.

“Non abbiamo altro da fare qui (…). Non so proprio perché la facciamo tanto lunga, quando c’è un funerale. Sappiamo benissimo che ognuno di noi ne avrà uno. (…)”

“Di funerali ce ne sono sempre meno di quanti uno ne vorrebbe, vero?”

Avevo da poco terminato la lettura del romanzo e, come sempre mi capita con questa autrice, avevo bisogno di una sosta per mettere a fuoco le sue pagine; dinnanzi agli occhi i quadri di scene dove personaggi entrano, escono, dialogano e compongono un mondo: lo denudano, diciamo. Senza astio e senza pietà.

La lettura di Ivy Compton-Burnett chiede il tempo necessario a “deglutire”, assorbire, recuperare, e insieme trattenere, o respingere, il sorriso, il ghigno, talvolta amari, solo lievemente venati da una ripulsa nei confronti dei suoi personaggi: oggetto infine di una qualche umana simpatia? Difficile dirlo, non potendolo escludere: meglio, pare dirci l’autrice, lasciare al lettore il giudizio; ben sapendo di obbligarlo a caricarsi, qua e là, e ad ogni pagina, di una piccola sottile vergogna per il sorriso con cui accoglie i suoi formalmente educati dialoghi familiari. Coltellate, a tutti gli effetti.

 “Immagino che di…non si parli mai, adesso”

“Non in presenza di mio padre. Ma noialtri ne parliamo, certo. Stanno ancora bene, sì?”

Ci sta tutto: come ben sappiamo la famiglia è (anche) il luogo della violenza che, se siamo persone civili, deve venir gestita secondo regole chiare, previste e prescritte: dopodiché, tutto potrà andar bene, o almeno venir riposto sotto il tappeto.

Disagio, che il sarcasmo corregge. Dopotutto, ognuno di noi potrebbe aver bisogno, un giorno, trovandosi sfortunatamente illuminato, nel suo essere, dal potente faro di uno sguardo freddamente impietoso, di quel po’ di umana pietà che sola salva, con un moto di simpatia aggiunta. Come sopravvivere, altrimenti, quando ci viene tolto ogni salvifico angolo d’ombra: unica difesa, una qualche forma di sorriso.

“Avete un’aria così soddisfatta, che sembra quasi che siate voi due le future spose. (…)”

“Non immagini nemmeno quanto siamo soddisfatte, padre. (…) Mi domando se tutte le zitelle custodiscano in sé la segreta sensazione di averla scampata bella”.

Che fare, con questa donna. Illuderci che il tempo sia trascorso e <quelle famiglie> siano solo un ricordo della storia, un punto di caduta ormai solo oggetto di studio, stupore e sorriso; dimenticato come la piccola nobiltà e l’agiata borghesia di campagna, indefiniti i luoghi.

Ma sia chiaro, sotto la leggerezza dei dialoghi, nei romanzi di Dame Ivy c’è di tutto: veri scandali, delitti e quant’altro. Ma certo, mai qualcosa come la legge, o la polizia o, per l’appunto, lo scandalo dovrà abbrutire le nostre vite: dopotutto, la verità è sempre ben nota, a tutti; e, prima o poi, ci riguarderà.

 “Signor Edgeworth – disse Dulcia – è solo questo che è successo. Semplici, meschine dicerie che scompaiono in un soffio, come i fiori di tarassaco (…)”

“I fiori di tarassaco, quando si disperdono, si depositano un po’ ovunque”.

Alla fine, volendola guardare da una certa angolatura, e trovandoci a condividere con l’autrice (solo forse) una qualche buona volontà sorridente amara, tutto andrà bene: Non è questo il motto anche dei nostri giorni?

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[i] La Tartaruga, dopo varie acquisizioni, ha sospeso le pubblicazioni dal 1998 al 2017.