Ferdinando Pessoa, “Poemi di Alberto Caeiro”. A cura di Pierluigi Raule. Testo portoghese a fronte, Edizioni La vita felice, 1999, 2007
Il custode di greggi
“Pref.
“Leggo, e sono limpido nelle mie intenzioni; ciò che c’è di febbrile nella semplice vita mi abbandona; una calma completa mi invade. Tutto il riposo della natura è con me.”
I
Io non ho mai custodito greggi,
ma è come se li custodissi.
La mia anima è come un pastore,
Conosce il vento e il sole
E va per mano con le Stagioni
Le segue e le guarda.
Tutta la pace della natura senza gente
Viene a sedersi al mio fianco.
Ma io resto triste come un calar del Sole
Per la nostra immaginazione,
Quando scende il freddo in fondo alla pianura
E si sente la notte entrata
Come una farfalla per la finestra.
Ma la mia tristezza è quiete
Perché è naturale e giusta
Ed è ciò che deve esserci nell’anima
Quando già pensa di esistere
E le mani colgono fiori senza che essa se ne accorga.
Come un rumore di sonagli
Oltre la curva della strada,
I miei pensieri sono contenti.
Solo ho pena di sapere che sono contenti,
Perché, se non lo sapessi,
Invece di essere contenti e tristi,
Sarebbero allegri e contenti.
Pensare disturba come camminare sotto la pioggia
Quando il vento cresce e sembra che piova di più.
Non ho ambizioni né desideri.
Essere poeta non è un’ambizione mia.
È la mia maniera di essere solo.
E se desidero a volte,
Per fantasticare, essere un agnellino
(O essere il gregge tutto
Per andare sparso lungo tutto il pendio
Ed essere molte cose felici allo stesso tempo)
È solo perché sento ciò che scrivo al calar del Sole
O quando una nuvola accarezza la luce
E scorre un silenzio per l’erba, fuori.
Quando mi sento di scrivere versi
O, passeggiando per i sentieri o per le scorciatoie,
Scrivo versi su un foglio che sta nel mio pensiero,
Sento un bastone nelle mani
E vedo un’immagine di me
Sulla cima di una collina,
Mentre guardo il mio gregge e vedo le mie idee,
O guardo le mie idee e vedo il mio gregge,
E sorrido vagamente come chi non comprende ciò che si dice
E vuol fingere di comprendere.
Saluto tutti coloro che mi leggeranno,
Levandomi l’ampio cappello
Quando mi vedranno alla mia porta
Appena la diligenza arriva in cima alla collina,
Li saluto e auguro loro sole
E pioggia, quando la pioggia è necessaria,
E che le loro case abbiano
Accanto a una finestra aperta
Una sedia prediletta
Dove si siedano a leggere i miei versi.
E leggendo i miei versi pensino
Che sono una cosa naturale qualsiasi –
Per esempio, l’albero antico
All’ombra del quale quand’erano bambini
Si sedevano di colpo, stanchi di giocare,
E asciugavano il sudore della testa accaldata
Con la manica del grembiule a righe.

Tempo difficile, questo, per la lettura, avevo detto poco tempo fa (qui) . È un tempo che oggi potrei dire divergente; carico di richiami a tempi passati, alla ricerca di indicazioni per un tempo nuovo impossibile da vedere, di cui manca anche il sogno.
In un mondo che chiede di tornare alla vita – al sole, all’aria, al verde; di essere abitato con amore, con appartenenza, dai suoi viventi, tutti – sentiamo quella domanda e quella voce affievolirsi. Forse, e lo spero, sarà solo il mio orecchio ad essere vecchio, a non sentire più voci.
Io rovisto pagine e, nel desiderio di provarmi a restituire “Il vagabondo del Dharma” di Jack Kerouac, cui avevo accennato (qui) vengo catturata da Fernando Pessoa. Vengo raggiunta da un richiamo che non so decifrare.
Kerouac mi ha riportato sogni, ingenuità, una gioventù senza tempo che non sapeva, credo, o si sforzava di negare, di essere disperata; di abitare un mondo che andava incontro al chiudere il proprio futuro (in ricchezza, progresso e quant’altro, simile al bagliore finale di una nova); che non sapeva, o forse sì, di star profetando la fine di un mondo sbagliato ma capace ancora di vivere momenti di grande felicità, momenti capaci di restituire calore a tutta una vita.
Devo pensarci. Mi è difficile dire se la grande bellezza che ho trovato in quel libro non parli solo a una generazione, perduta sin da allora. Tra parentesi, ho riaperto, in seguito, “Sulla strada”, di cui “Il vagabondo del Dharma” è il seguito, cercando di ritrovare quelle pagine e no – non so perché, ora per me sono mute. L’ho lasciato, per dargli ancora una speranza.
È folle, oggi, dire che solo una disperazione non saputa, respinta, ha saputo cogliere quei momenti, così come, stupiti, si coglie un fiore?
Se non fosse banale (e addirittura privo di senso) direi che sono stati, e hanno trasmesso, momenti di essere – in interezza, fuori dal vincolo del tempo; di quelli che basta così.
Fernando Pessoa (1888 – 1935); il suo eteronimo Alberto Caeiro “nacque” il 16 aprile 1889 a Lisbona dove morì nel 1915. Nato, come eteronimo di Ferdinando Pessoa, già nel passato – la sua “morte”, nella mente di Pessoa, ne ha preceduto la nascita– è “vissuto” in un tempo del mondo, in una lingua e in un paesaggio che nulla condividono con il mondo e il tempo di Jack Kerouac (1922 – 1969): che, a differenza di Fernando Pessoa, non sapeva, forse, di inventare un suo personaggio-maschera per fottere la paura.
Bevevano troppo, ambedue. Sono morti ambedue a 47 anni. Non è proprio quel che si dice un destino comune, ma è così. Cirrosi epatica, per ambedue. Certo, niente risse all’osteria, per il discreto, nascosto Pessoa.
Non so cosa mi abbia portato dall’uno all’altro, se non una qualche forma, che vale per ambedue, di abitare un mondo altro, parallelo. Molti mondi, in effetti.
Momenti di tempo irrelati che si richiamano? Scoprendosi fratelli?
Nel tempo che stiamo vivendo qualcuno si illude, fingendo di deprecare, e dice che tutto tornerà come prima ben sapendo che un tempo è morto, non da oggi; e che forse, persino probabilmente, sceglieremo di fingere quel tempo, per poter tornare all’apparenza di un prima, solo un po’ più faticoso.
Basterà non guardare troppo da vicino il mondo – i mondi – che ci circondano, che premono illusi alle tante frontiere di un occidente ancora insepolto; i mondi dilaganti di coloro per i quali più difficile non si può. Basterà loro, oltre a noi, non guardare, non sapere, l’agognato “mondo di prima” e lo schifo.
E se ci trasferissimo, per qualche tempo, a Fairie? Sto facendo brevi passeggiate nei suoi dintorni, ultimamente. Solo per ritrovare luoghi da ricordare. Luoghi abitati, da viventi, di tante specie. Nell’illusione, forse, che ricordare serva a un domani. Desiderando narrare a qualcuno.
Si accavallano così pagine e letture disparate, mentre sbroglio fili, cerco una traccia di senso, come alcuni cercavano l‘acqua a casaccio con la bacchetta biforcuta del rabdomante.
Qualcosa vibra. Quant’è cocciuta la vita! Qualcosa insiste.
Non se ne andrà. Rimarrà – per il suo tempo, vale per ogni specie, poi basta – anche la specie umana. Non soffrirà più di oggi, credo. A meno di non voler credere che ciò che importa sia solo un punto di vista; quello per cui siano <altri> a soffrire. Quello che colloca la sofferenza in un <altrove>.
Nel frattempo – la bacchetta ha vibrato? – c’è questo libro: “Poemi di Alberto Caeiro”. Un bel libro, prezioso, di cui l’editore orgogliosamente scrive, a chiusura della seconda di copertina:
“La nostra edizione, unica in Italia, presenta i poemi di Alberto Caeiro, secondo il piano originale dell’opera, concepito dallo stesso Pessoa.”
Nel frattempo, distrattamente apro/chiudo “Il libro dell’inquietudine”. Non l’ho ancora letto. Ora, forse. A poco a poco. Se ci sarà il tempo – o per il tempo che ci sarà, che è lo stesso.
Occorrerà parlare – meglio: occorrerebbe parlare – degli eteronimi di Fernando Pessoa, ma, primo, non so se ne sono capace; secondo, e più importante, perché non rispettare il Poeta e giocare con lui. Come lui ci invita a fare. Nella poesia. Là dove il gioco è cosa seria, la più seria che ci sia.
Magari, più in là, forse, se lo desidereremo, ci saranno le lettere d’amore per Ofelia Queiroz, la sua giovane “fidanzata”. Scritte da uno che pensava che le lettere d’amore fossero ridicole. Che no, non lo pensava: lo scriveva. Anzi: ancora no. Ancora una volta, non erano sue le parole: le aveva rubate a “Alvaro de Campos”. Che le aveva rubate a lui. Va a sapere. L’importante è sapere che Todas as cartas de amor são ridículas.
E l’amore è amore. Non per una donna, non per un uomo. Non solo. Per la casa, per i campi, per il cielo, per i viventi. Per le greggi…
… Per fantasticare, essere un agnellino
(O essere il gregge tutto
Per andare sparso lungo tutto il pendio
Ed essere molte cose felici allo stesso tempo)
Amore per sapere – ed eccomi con Kerouac[i], sulla montagna, a fingere di essermi lasciata finalmente cadere a terra, stanca felice e contenta; mentre levo le scarpe per liberarle da sabbia e sassolini – di aver imparato la cosa più importante, di aver imparato che…
“non si può precipitare da una montagna…quando arrivi in cima ad una montagna, continua a salire Smith”
Sono andata fuori tema, come si diceva un tempo. Per i fatti miei. Mi capita. Temo pure che mi piaccia così.
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[i] Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma”