“C’era una mano nell’oscurità…

… e impugnava un coltello.”

Neil Gaiman, Il figlio del cimitero, Mondadori 2009

Tutto, in questa storia, fin dall’incipit (“C’era una mano nell’oscurità, e impugnava un coltello”) dice con immediatezza trattarsi di una storia per bambini. La percezione  viene confermata dal desiderio che afferra il lettore, subitaneo, del suono di una voce che narri – cupa, profonda;  mentre ci si ritrova a (aver desiderio di) leggere a voce alta, a desiderare di raccontare una favola a noi stessi.

Nel mentre, si ascolta, come venisse dalla pagina, una voce, e avremo occhi spalancati  di bambino mentre l’orecchio attende di ascoltare una gioiosa paura.

È bella l’attesa infantile della paura, rasserenata dal piacere di saperla qualcosa di <reale> perché costruita proprio per noi; e insieme dal sapere che quella voce, che narra, è un’assicurazione sulla vita: nel bel tempo in cui la paura – questa paura – potrà essere solo goduta, e sconfitta. Divenendo – dicono, ma anche non fosse, sarà stato ugualmente bello viverla – addestramento alla vita, esperienza a costo zero e anzi, con piacere aggiunto.

La storia: un breve antefatto, che sta ancora accadendo, è proprio allora accaduto: una mano armata di coltello ha ucciso, nella casa, in una notte di luna velata dalla nebbia, un padre una madre e la loro figlia. Resta da uccidere solo un bambino, il più piccolo, che dorme nella culla, nella sua cameretta: e solo allora un uomo, chiamato Jack, avrà completato il suo lavoro.

Non c’è un perché, per ciò che sta accadendo: non ancora, e neppure importa.

Il Jack assassino ha operato nel silenzio; si è mosso nel buio, alla sola luce della luna, ma qualcosa ha svegliato la piccola peste, disperazione della mamma e del papà  “perché non si era mai visto un bimbo a cui piacesse tanto gironzolare, arrampicarsi dappertutto, intrufolarsi e spuntar fuori da ogni dove”.

Il piccolo troverà il modo di uscire dalla sua accogliente prigione a sbarre, la sua età non contempla ancora la paura, e di lì…

“Sgattaiolò fuori dalla cameretta.

Gli scalini che salivano erano un affare complicato e non era ancora riuscito a venirne del tutto a capo. Quelli che scendevano invece, aveva scoperto, erano uno scherzo. Li scese sedendosi e saltando di gradino in gradino sul culetto ben imbottito. Succhiava il ciuccio di gomma, quello che la madre aveva appena cominciato a dirgli che era ora di abbandonare.

Saltellando sul sedere giù per le scale il pannolino si allentò, e quando il piccolo raggiunse l’ultimo gradino, quando raggiunse il piccolo ingresso e si alzò, il pannolino gli cadde giù. Il bimbo fece un passetto e se ne liberò. Ora non indossava altro che la camiciola per la nanna…la porta che dava sulla strada era aperta e invitante…

…la nebbia gli si avviluppava intorno come l’abbraccio di un amico smarrito da tempo. Quindi, prima esitante e poi sempre più rapido e sicuro, cominciò a caracollare verso la cima della collina.”

La paura per chi legge, per chi narra, non c’è più. Proprio come non c’era stata per il piccolo: di cosa dovrebbe stupirsi un bimbetto per il quale tutto il mondo è nuovo, se non felicemente di tutto e di nulla?

Ora chi legge, chi ascolta, è immerso nella nebbia – non di un sogno, no, di un passaggio ad un mondo dove è di casa la poesia; che si fa realtà.

Là sulla collina, …

… “si vedevano la cappella funeraria abbandonata, i cancelli di ferro chiusi dal lucchetto, l’edera che si avviluppava intorno a una guglia, un alberello che spuntava da sopra le grondaie, all’altezza del tetto.

Si scorgevano le lapidi e le sepolture, le tombe e le targhe funebri. Ed ecco un coniglio, un’arvicola o una faina, che saettavano sgusciando dal fitto del sottobosco per attraversare d’un balzo il sentiero.

Avreste visto tutto ciò, alla luce della luna, se foste stati lì quella notte.

Forse non avreste visto una donna pallida e grassoccia (…).”

La storia comincia, per un bambino che otterrà la cittadinanza del cimitero e cui una mamma e un papà, nuovi e antichi, daranno il nome di NobodyNobody Owens, per l’esattezza, perché le cose, quando si adotta una bambino vanno fatte per bene – dopo essersi consultati, naturalmente, con i cittadini del piccolo cimitero; tutti in quel luogo erano stati coinvolti nella decisione di offrire una casa al piccolo.

Ci sarà un tutore – Silas – ad affiancare i nuovi genitori; un fantasma, che aveva il potere, negato agli altri abitanti, di uscire dal cimitero, e provvedere tutto ciò che era necessario al bimbo – abiti, cibo, più avanti cose per la scuola…

Silas

Avverranno incontri,  fatti, il sentore di una minaccia per Nobody. Cose così. Occorreva fare ciò che andava fatto, e proteggere.

La paura non c’è più. Tornerà. Se ne riandrà. Tornerà. Senza far davvero paura, sconfitta dalla poesia del luogo e dei suoi abitanti, dall’amore che circonda il bambino, dalla presenza di una famiglia e di amici che gli vogliono bene.

E certo non vi racconterò la storia. Potrò solo dire che  incontreremo personaggi di mondi contigui al nostro; che li incontreremo con curiosità ma senza stupore, là dove la sospensione dell’incredulità è di casa e risponde perfettamente alla legge naturale. Che saranno amici e nemici; incontri nel pericolo e incontri portatori di salvezza.  

Posso dirvi, questo sì, che tutto sarà ricolmo di poesia.

Passerà il tempo. Nobody – Bod per gli amici – che ha già cinque anni, farà amicizia con Scarlett, una bambina coetanea che la mamma, avendo una casa priva di spazio di gioco, portava sulla collina e lasciava giocare da sola, per poi ascoltare il racconto della sua bambina sul bambino con cui aveva fatto amicizia.

Anche Bod raccontava ai propri familiari della sua amica; anzi, la presentava loro, e…

“Il fatto che lei non li vedesse non pareva contare granché. I genitori della bimba avevano ribadito con fermezza che Bod era immaginario e che non c’era nulla di male in questo… perciò non la sorprese minimamente che anche lui avesse amici immaginari. Le riferiva le cose che dicevano.”

Poesia, dicevo, per il lettore adulto. Normalità, per il bambino, che è – anche – il destinatario del libro; che nella poesia ci vive, dovendo fare i conti con un mondo tutto da scoprire, in cui tutto gli parla, tutto è nuovo e dunque niente potrà essere inatteso. Solo meraviglioso.

Per questo suo libro Neil Gaiman ha meritato, nel 2009, la Newberry Medal[i] e, nel suo discorso di accettazione ha detto, e scritto:

“Avevo dimenticato quello che la letteratura era per me quando ero un ragazzino, dimenticato com’era stare in biblioteca; le storie rappresentavano una fuga dall’intollerabile, una porta che dava su mondi incredibilmente ospitali dove esistevano delle regole e queste regole erano comprensibili; le storie erano state un modo per imparare le cose della vita senza sperimentarle (…). A volte le storie servono ad affrontare il veleno del mondo in modo da riuscire a sopravvivere. E così ho ricordato (…)

E così ho scritto un libro sugli abitanti di un cimitero (…)

L’ho scritto meglio che ho potuto. È l’unico modo che conosco per scrivere qualcosa. Questo non significa che sarà bello. Significa solo che ci ho provato. E, soprattutto, ho scritto la storia che avrei voluto leggere.”.[ii]

C’è tuttavia ancora solo una piccola cosa da dire, su questo libro: ed è che si tratta sicuramente di un libro per ragazzi, che potranno goderne la lettura solitaria, facendone un tesoro personale così come potrebbero godere dell’ascolto  di una bellissima storia letta loro da un adulto significativo; ma è un libro davvero prezioso per una lettura adulta, come peraltro accade con tutti i libri di Neil Gaiman.

Nobody Owens

Sempre nel saggio citato Gaiman si interroga sul confine, tanto incerto, tra letteratura per adulti e letteratura per ragazzi e, dopo aver variamente esplorato l’argomento, conclude dicendoci come – e ne è certo – nessuno di noi sarà in grado di rispondere a tale domanda in modo veramente soddisfacente.

Ho proposto più volte questo autore (se cercate, troverete proposta la lettura di Good Omens, (2020), di American Gods (2019), di Coraline (2016), di L’oceano in fondo al sentiero).

È chiaro che trovo, dentro le pagine di Neil Gaiman, ciò che della mia infanzia non dovrà mai essere perduto insieme a ciò che solo una lettura adulta può apprezzare; e riscrivere per sé, e rileggere, rendendo ogni pagina nuova, farmaco adatto al momento.

Soprattutto in giorni come questi che stiamo vivendo. Pagine come queste ci armano, e ci difendono.


[i] Da Wikipedia: La medaglia John Newbery (John Newbery Medal) è un premio letterario assegnato annualmente dalla Association for Library Service to Children, una divisione della American Library Association (ALA) all’autore del miglior libro americano per ragazzi.

Il premio viene assegnato annualmente sin dal 1922, ed è stato il primo premio letterario per ragazzi.[1] Anche per questo è considerato, insieme alla medaglia Caldecott uno dei più prestigiosi premi letterari relativi alla letteratura per l’infanzia negli Stati Uniti. Il suo nome deriva da John Newbery, un editore di libri per bambini del XVIII secolo.

La medaglia Newbery è stata disegnata da René Paul Chamberlain nel 1921 e rappresenta su un lato un libro aperto e sull’altro lato uno scrittore che consegna il proprio libro a due bambini.

[ii] In: “Raccontare bugie per vivere…E perché lo facciamo”: discorso per la Newbery Medal, 2009. Pubblicato nel saggio “Questa non è la mia faccia. E su un mucchio di altra roba. Saggi sparsi su leggere, scrivere, sognare”