Nei dintorni del problema

Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III

 Con Prefazione  di Augusto Peccei

“I limiti dello sviluppo”. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il Progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità”

Ed: Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori  1972

*****

Ho “promesso”, non del tutto, di parlare “per una volta sola” del tempo che stiamo vivendo, perché qui si parla di libri.

Dopodiché, i libri portano pensieri di altri libri, letti, dimenticati: ma non del tutto perché, come ognuno sa bene, al bisogno, i libri letti, i pensieri che hanno fatto nascere, le strade che hanno portato a prendere, si ripresentano a noi. Ritornano. Puntuali. Ricordi che sorprendono, inattesi. Ci parlano nuovamente. Non si fanno tacitare.

Accadono cose strane – soprattutto la notte quando, nel dormiveglia, non proprio nel sogno, un libro – che si credeva dimenticato – si staglia.

La mattina, si dimentica, poi si ricorda, ma non lo si ritrova nello scaffale in cui dovrebbe stare.

Cose che accadono: questi sono giorni, per me (meglio: per mio marito, che tuttavia mi consulta nel merito) di riordino/svuotamento del garage, da cose vecchie: ci sono anche pacchi di vecchi libri da risistemare…ed eccolo. È l’inatteso.

Parrebbe magia ma accade: “I limiti dello sviluppo”. E i pensieri si accavallano, incongrui; a ricordo si somma ricordo, a pensiero pensiero: per ora, solo come un catalogo di cose, di pagine, di vecchie idee, di tempi lontani. 

Si chiamava Aurelio Peccei. È stato un grande manager italiano. È stato il promotore, con lo scienziato Alexander King, nel 1968, di quel gruppo che fu chiamato “Il club di Roma” (dal luogo del primo incontro tra i partecipanti). 

Aurelio Peccei, 1976

Interessante ricordare il percorso imprenditoriale di Aurelio Peccei. Con quello di Adriano Olivetti. Abbiamo dimenticato, credo, anche la vicenda di Enrico Mattei – morto (ucciso?) nel 1960, dieci anni prima della nascita del Club di Roma: a proposito di petrolio; non si parlava, al tempo, di problemi ambientali. C’era l’industria italiana da ricostruire.

Oggi, forse, il nome e la storia di Aurelio Peccei sono poco conosciuti –  dimenticati da molti: il suo nome dirà ancora qualcosa ai cosiddetti boomers, o quantomeno a buona parte di loro, e forse mai sarà stato udito dai millennials, tanto per utilizzare categorie vaghe ma del genere “da quelle parti”.

 Il Club di Roma è attivo e vive ancora. Agisce ancora. È un’organizzazione, su base volontaria, che riunisce scienziati, pensatori, economisti di alto livello impegnati ad analizzare, su scala mondiale,  come lo sviluppo economico-tecnologico influisca sull’ambiente, sulla disponibilità delle risorse e sugli equilibri delle società.

Nel ’72, su mandato di questa neonata organizzazione, un gruppo di scienziati del Massachusetts Institute of Technology (MIT) portò a compimento il cosiddetto “Rapporto sui limiti dello sviluppo”,  indicato per brevità come  “Rapporto Meadows” (dal nome dei coniugi Donella e Dennis Meadows, i due scienziati a capo del gruppo del MIT che condussero lo studio).

Fu il primo dei rapporti che il Club continuò a produrre, aggiornando i dati e confermandone nel tempo la validità.

Il “Rapporto Meadows” fu pubblicato, nel ‘72, con il titolo  “I limiti dello sviluppo” e ottenne, al tempo, una grande diffusione dando luogo ad un intenso dibattito a livello mondiale.

Donella Meradows e il gruppo di lavoro che ha prodotto il Rapporto sui limiti dello sviluppo 1972. In: https://raunerlibrary.blogspot.com/2011/09/donella-meadows.html

I risultati, riassunti da Meadows a Washington, informavano sul fatto che.

  • Ci sono limiti fisici alla crescita che, al ritmo attuale verranno probabilmente raggiunti già nel corso della vita dei nostri figli;
  • Se, operando scelte a breve termine, continueremo a ignorare questi limiti, essi saranno inevitabilmente superati con conseguenze catastrofiche;
  • l’unica alternativa è riequilibrare l’incremento demografico e la produzione materiale con ambiente e risorse;
  • ci vorranno dai 50 ai 100 anni per raggiungere questo equilibrio;
  • ogni anno perso nel perseguimento di questi obiettivi rende una transizione ordinata verso una situazione di equilibrio sempre più difficile, riducendo le nostre opzioni.

Dallo studio emergeva, dunque, come lo sviluppo tecnologico ed economico in atto, a fronte della finitezza delle risorse (in particolare del petrolio) non avrebbe potuto protrarsi all’infinito e avrebbe anzi dato luogo, dopo l’anno 2000, ad una crisi irreversibile sia a causa dell’esaurimento in particolare della risorsa petrolio sia a causa dell’inquinamento che il modello produttivo in atto comportava.

Al tempo, e in coincidenza con la crisi petrolifera del ’73, il Rapporto suscitò un grande dibattito e sembrò dar vita ad una iniziale consapevolezza: sembrò che ne potesse derivare l’impegno, a livello politico e, a cascata, tecnologico ed economico, ad avviare, in tutti i paesi, dei correttivi al modello produttivo in atto.  

Il Rapporto Meadows fu accolto da grandi dibattiti, non potendo venir liquidato facilmente in quanto asseverato dal Club di Roma, nonché da competenze e da una documentazione tra le più alte del mondo. 

In noi giovani di quei tempi, segnati da una imbelle ingenuità (che sempre più mi ritrovo a considerare una grande fonte di saggezza purtroppo unita, malamente, ad una irrazionale – proprio in quanto razionale: e permettetemi l’inghippo logico – fiducia nell’intelligenza del genere umano) è nato un allarme altamente benvenuto: ai più o meno rimasugli dei figli dei fiori, mentre in Italia avanzavano gli anni di piombo, veniva forse detto che avevano avuto ragione?

Austerity, Autunno 1973. Foto Giornale di Brescia

Non era così, e il mondo politico e imprenditoriale non dava particolari segnali di intelligenza ma insomma, andava bene ugualmente.

Ne è nata, voglio dire, una sorta di fiduciosa e speranzosa attesa, decisamente malriposta.

Per chi c’era: lo ricordate quell’autunno del 1973 quando, causa l’embargo attuato dall’OPEC nel contesto della guerra arabo-israeliana dello Yom Kippur, in tutto il mondo occidentale furono adottate severe restrizioni all’uso privato delle automobili, al consumo di carburante, al riscaldamento domestico, all’illuminazione? Ricordate le domeniche a piedi, in cui si giocava a pallone per le strade, ci si divertiva a correre sui pattini a rotelle – la bicicletta, al tempo, era ovvia: le città erano diventate meravigliosamente silenziose, l’aria sembrava più buona e la gente (intendo: chi era ragazzo o, comunque, giovane) più allegra? Durò poco, ovviamente. Fu qualcosa come giocare a far finta o giù di lì. Ma, per un attimo, sembrò vero. Sembrò una speranza.

Mentre i nostri genitori e i più anziani si angosciavano (Immagino: giustamente sconvolti dal petrolio che era schizzato – valuta del tempo – da 3 a 12 dollari il barile!) noi, cresciuti all’ombra della guerra fredda, sotto l’incubo della guerra atomica; noi usciti da un’infanzia nel primo dopoguerra se non di guerra, quando i giocattoli per i bambini (maschi, ma non solo) erano i soldatini, i “carriarmatini”, tutto color verde militare; erano le pistole con il tappo-proiettile di sughero legato ad uno spago; noi cresciuti, almeno dalle mie parti, al suono di canzoncine che dicevano Bombardano Cortina oilà, dicon che gettan fiori, oilà…”; noi, dicevo, vedevamo una nuova speranza all’orizzonte per le magnifiche sorti e progressive dell’umanità. 

Dalla crisi di Cuba era trascorso un decennio ma la paura nel mondo era ancora tutta là. La guerra del Vietnam era ancora in corso; c’era stata Piazza Fontana e i tempi si facevano sempre più bui; il momento poneva il mondo di fronte al rischio di una crisi globale ma, chissà perché, noi ci sentivamo certi della, futura, vabbè, vittoria, e del giungere di un sol dell’avvenir: non lo stesso per tutti, non chiara la vittoria di chi, ma comunque…

Non so voi – dico per chi c’era – ma nel mio ricordo quel rapporto, quel libro, è stato un pensiero positivo; una speranza: diceva che, infine, non si sarebbe più potuto negare che il mondo era tutto sbagliato; sarebbero dunque stati presi adeguati provvedimenti! Nessun dubbio!

Austerity, autunno 1973. Immagine da Vanilla Magazine

Sta di fatto che l’allarme lanciato dal Club di Roma e sostanziato dal Rapporto Meadows, cessata l’emergenza, fu ritenuto non accoglibile: si pensò che la tecnologia avrebbe sopperito alla finitezza delle risorse in uso. Il mondo avrebbe dunque potuto benissimo proseguire nel suo percorso verso il baratro, con solo qualche chiacchiera aggiunta o poco più.

Donella e Dennis Meadows fecero seguire al primo rapporto aggiornamenti dei loro studi – fino alla pubblicazione, del 2004, di “I nuovi limiti dello sviluppo”, confermando, con dati, la validità del loro studio iniziale che costituisce dunque, ancor oggi, una previsione in corso di avveramento. Preciso e puntuale. Neppure una vera sbavatura.

Troppo lungo, ora, parlarne, in questo piccolo spazio di pensieri in libertà. Dopotutto, le informazioni si trovano, per chi lo desideri, in rete – ma vorrei suggerire un interessante articolo su Peccei e il Club di Roma del professor Marco Santandrea, storico della Scienza (qui

È strano, tuttavia, come dopo aver ripreso tra le mani, riletto la Presentazione del Rapporto scritta da Aurelio Peccei; riletto il Commento conclusivo degli autori; dopo aver ripercorso le pagine del libro (doverosamente sottolineato), io mi sia trovata di fronte al bagliore di un altro improvviso ricordo, quasi una voce che mi diceva:

«I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo.» 

E che è, professor Marx? Lei dovrebbe ben sapere come, a tutta la mia stima per il suo pensiero, non abbia mai corrisposto una mia adesione alle prassi politiche che ne sono derivate. Mi intriga tuttavia come mai la sua celebre “Undicesima tesi su Feuerbach”: oggi, senza modificarne una virgola, potrebbe venir utilmente ripensata, per un tempo diverso. 

Pensieri in libertà – cose perdute negli scatoloni del mio tempo – vecchie cose da salvare – forse.

Tornano alla mente, più recenti, le parole di Jared Diamond[i]:

«Il mio ultimo motivo di speranza è frutto di un’altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell’isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento ma a migliaia di chilometri, i Vichinghi della Groenlandia e i Khmer si trovavano allo stadio terminale del loro declino, o che gli Anasazi erano andati in rovina qualche secolo prima, i Maya del periodo classico ancora prima e i Micenei erano spariti da due millenni. 

Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore. I documentari televisivi e i libri ci spiegano in dettaglio cosa è successo ai Maya, ai Greci e a tanti altri. 

Abbiamo dunque l’opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun’altra società ha mai avuto questo privilegio. Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne.»

Ora, che dire: tra il lasciare ogni speranza e l’illusione di poterne uscire senza danni, potrebbe starci un mondo per i nostri figli, magari faticoso ma vivo? Dopotutto, il ricco mondo in cui abbiamo vissuto, a guardar bene, non dovrebbe davvero venir rimpianto.


[i] Jared Diamond, “Collasso”, Einaudi 2005