“E’ stato. Non sarà più. Ricorda”

Paul Auster, “L’invenzione della solitudine”, Einaudi 1997

L'invenzione della solitudineHo scelto di leggere, e poi proporre, quest’opera di Paul Auster non avendo finora letto nulla di questo autore (uno tra i grandi della letteratura americana contemporanea) e mi domando cosa me ne ha fatto sempre rinviare la lettura. Domanda peregrina, mentre invece so bene cosa mi ha portato a scegliere di leggerlo ora: il fatto che si tratta del marito di Siri Hustvedt e il fatto che lei venga presentata, sia stata presentata (credo e spero non lo sia più) come ‘moglie di’ ha mosso la mia voglia di andare a vedere.

E ho scelto questo libro perché il tema mi interessa – la relazione padre figlio, l’assenza del padre (oggi tema frequentato; al tempo in cui questa narrazione autobiografica-diario è stata pubblicata forse non lo era altrettanto). E forse anche perché è stato la sua prima consacrazione: quando è stato editato Paul Auster scriveva già da molti anni, ma non aveva ancora avuto riscontri significativi; aveva pubblicato poesia; aveva lavorato come valido traduttore di autori francesi; aveva sicuramente molto lavorato alla propria scrittura ed era un intellettuale accreditato. Ma è stato con “L’invenzione della solitudine” che si è fatto conoscere dalla critica e dal pubblico.

In seguito, con “La trilogia di New York” la statura di grande scrittore di Paul Auster è stata definitivamente consacrata e, ad oggi, egli è uno tra gli autori più prolifici e più noti del panorama letterario.

Così, mi sono trovata alle prese con un libro che ho faticato a leggere e di cui confesso che le ultime venti pagine possono dirsi ‘scorse in velocità’, ‘tirate via’ più che lette e del quale, sinceramente, non consiglierei ad alcuno la lettura: non perché non sia un libro dalla scrittura pregevole, con brani che si fanno apprezzare, ma perché, pare a me, non facilita alcun coinvolgimento.

Diviso in due parti – “Ritratto di un uomo invisibile” e “Il libro e la memoria” – il libro raccoglie il vissuto dell’autore sul suo essere figlio, nel momento in cui si trova a vivere la morte, improvvisa e prematura, del padre; e dell’essere padre, nel momento in cui il suo matrimonio sta vivendo la crisi che ne decreterà la fine.

In “Ritratto di un uomo invisibile”, l’autore parla della morte del proprio padre che, improvvisa, apre una faticosa riflessione sull’essere figlio di un padre assente e si misura con il bisogno di ricostruire la vita di un uomo a lui di fatto sconosciuto, vivendo la voragine emotiva del dover violare l’intimità di una persona (una casa da vuotare, cassetti da aprire, oggetti di cui recuperare la memoria). Misura così la relazione o, come in questo caso, la mancata relazione e la chiusura di un tempo per conoscersi, che non ci potrà più essere.

Nasce il bisogno del ricordo, della ricostruzione di una vita, da compiere attraverso le cose, gli oggetti, le foto, pezzi sparsi di memoria, per capire e trovare quel padre indifferente: nella storia dell’infanzia di quel padre emergerà un fatto sconosciuto, che ne modificherà l’immagine, restando la domanda, che verrà svolta nella seconda parte del libro, sul significato e sul vissuto dell’esperienza della paternità.

In queste prime settanta pagine, la lettura (di fatti concreti, dei sentimenti che vi si accompagnano, degli avvenimenti che circondano le occupazioni che una morte porta con sé – prete, esequie, parenti) il lettore (va bene: diciamo ‘io’) vive una specie di distanza-disagio. Sperimenta la lettura di un diario privato, che parla solo per (e dovrebbe essere riservato solo a) chi scrive, su di un’esperienza che, possedendo come possiede un aspetto di universalità, non viene dotata di una struttura che tenga conto del lettore da guidare nella condivisione e nel riconoscimento di un vissuto, troppo intrisa com’è di particolari (‘quella’ morte, ‘quel’ padre, ‘quella’ casa, ‘quella’ storia, i cui aspetti universali restano non attinti).

E il lettore (va bene: ‘io’) non riuscirà a identificarsi, non troverà vissuti segnati dall’universalità dell’esperienza espressa con le parole “E’ stato. Non sarà più”, espressione riuscitissima che verrà ripetuta a chiusura del libro con l’aggiunta: “Ricorda”.

E la chiusura della prima parte di questa opera diaristica lo esplicita. Auster, al tempo giovane padre di un bambino di pochi anni e alle prese con un matrimonio che sta disgregandosi, guarda il figlio dormire. Ha smesso di scrivere e si propone: “Chiedersi che farà di queste pagine quando sarà abbastanza grande per leggerle”. Ecco: è questo. Sono pagine private, da lasciare, storia della famiglia, al proprio figlio.

Segue la seconda e più consistente parte: “Il libro e la memoria”. E qui la scrittura c’è tutta. Eppure.

Appunti, sulla propria vita degli anni giovanili a Parigi e fino ad un presente pregno dell’esperienza di essere padre; con la domanda, che la sua esperienza di figlio impone, su come e quando si diventa padri.

Il tutto è diviso in “Libri”: 13 più 1 brevi capitoli, a tema, costruiti su pensieri e racconti di e su esperienze, gli anni di Parigi, la povera stanza in cui, diciottenne, sperimentò “le infinite possibilità di uno spazio limitato”. E poi, l’esperienza della paternità, l’esperienza della possibile morte di un figlio. E i modi e i tempi, le circostanze di una crescita del suo essere uno scrittore, nel confronto-incontro con grandi scrittori del passato. La traduzione, con parti riportate, di una quarantina di frammenti dell’opera incompiuta di Stephane Mallarmé per la morte del figlio bambino, “Pour un tombeau d’Anatole”.

Un libro difficile da leggere perché, anche qui, scritto, sembra, per sé; intriso di citazioni (dalla Bibbia, dal Libro di Giona, dal Libro di Geremia, da Collodi, passando per Mandel’štam, Hölderlin, la Cvaeteva…) un mondo che richiede conoscenza e fatica al lettore e che, per la verità, sembra interrompere la comunicazione sul tema per privilegiare una meta-comunicazione che sostenga la figura dell’autore, disturbando un testo per altri versi molto bello, che lo poteva davvero essere.

Non è tanto il mio parere quanto il mio vissuto su questo libro. Ma ho riflettuto molto su ciò che ho scritto, e confermo. Resta la necessità di leggere opere posteriori di Auster, sicuramente. Non immediatamente.

.