Grace Paley, “Enormi cambiamenti all’ultimo momento“, Einaudi 2007
Traduzione di Marisa Caramella
“Mi piacerebbe provare a raccontare una storia così, voglio dire una storia di quelle che cominciano con: “C’era una donna…” seguito dalla trama, la linea assoluta tra due punti, roba che ho sempre disprezzato. Non per ragioni letterarie, ma perché non lascia speranza. Qualunque personaggio, vero o inventato che sia, si merita un destino aperto nella vita.”
Riprendo Grace Paley da dove l’avevo lasciata. Dalle sue parole, che avevo utilizzato come titolo per la recensione di “A pesca nelle pozze più profonde. Meditazione sull’arte di scrivere racconti” di Paolo Cognetti.
Perché sta tutto qui. E non è poco. Pensare un destino, ogni destino, come aperto. E’ questo ciò che permette alle storie che Grace Paley racconta di non essere storie tremende, di dolore insostenibile.
“Jack mi chiese, Non è terribile crescere all’ombra del dolore di un’altra persona?”
“Credo di sì, risposi. Come sai, io sono cresciuta nella luce solare della mobilità sociale. Questo ha filtrato un sacco di quel cupo dolore ancestrale”.
Ecco. Di questo si tratta. Del futuro aperto che Paley mostra, della disperazione che non chiude l’orizzonte della speranza-certezza, della forza, della volontà, della capacità di lotta; del futuro-donna, vale a dire posto, in qualche modo, nelle mani di quelle vittime – di se stesse, della società, della storia, soprattutto della storia – che non mollano mai e, se una più una più una cade, ciò non significa che non ci sarà il rialzarsi, doloroso, certo, come è dolorosa la vita, faticoso, certo, ma dotato di un punto di equilibrio che, raggiunto, mostrerà ancora e ancora una possibilità di vita e mani che sapranno afferrarla. Non è neppure necessario, nei suoi racconti, parlarne. E’ nelle cose.
Paley racconta le donne, racconta vite reali: delle amiche, delle vicine di casa, delle donne con cui ha vissuto, bambina, giovane ragazza, donna adulta; racconta una vita trascorsa nei quartieri popolari di New York. In quei quartieri ha vissuto, lottato, partecipato alla vita sociale, ascoltato e parlato; ha sperato ed è stata parte, nel senso proprio della parola, nel senso dell’appartenere ad un mondo e alle sue speranze, legandosi agli altri, tendendo la mano e afferrando quella altrui. Sapendo guardare e ascoltare. E molto, molto amare.
I suoi personaggi, le sue donne e i loro uomini, hanno nome e cognome, indirizzo, famiglia; e se i nomi sono di invenzione, Faith Darwin Asbury, il suo alter ego, la voce narrante delle sue storie, è una voce della verità, che parla di sé e parla di altre che condividono il suo narrare, non c’è dubbio. E’ lei stessa a parlarne. Lei, che viene richiesta di narrare, lei che accoglie la richiesta e che, con i suoi racconti, mantiene in vita la storia delle persone e apre loro un futuro. Piccolo? Può essere. Sicuramente vero.
Grace – Faith parla con la voce di ognuna; e di ognuno. E dinnanzi a chi legge si aprono quella strada, quel caseggiato, si alzano e vivono quella ragazza e quella donna, e quell’uomo, e quei bambini, precisi precisi. E se ne odono le voci, individuali, e che ognuno di noi conosce, si ascoltano proprio quelle parole, quel linguaggio – è così che parla la gente, quando parla al proprio prossimo, vale a dire a colei colui che le è vicino e con cui non c’è bisogno di andare al dettaglio; la vita, la conosciamo tutti, e chi mai, al mondo, ha torto.
“Il marito di Ginny è scappato con una portoricana che si radeva in mezzo alle gambe. E’ una cosa risaputa da tutti altrimenti non la racconterei. Quando Ginny venne a sapere che andava in giro con quella ragazza, pensò bene di raderseli anche lei, i peli in mezzo alle gambe, nella speranza di riconquistarlo, ma lui si disgustò e voltò pagina. (…) Gli uomini, man mano che invecchiano, si rincoglioniscono per donne sempre più incredibili; il mio vecchio, per esempio, che pure mi voleva un gran bene, non era diverso. Io ho sempre fatto finta di niente in circostanze del genere. Un consiglio a madri e mogli: guardatevi dall’imitare le amichette del vecchio scemo.”
Racconti brevi, taluni brevissimi. E una scrittura che, per ogni racconto, porta a doversi fermare, sì, perché quelle due o tre pagine, talvolta anche dieci, sono un intero romanzo, lì c’è tutto. C’è la storia, ci sono i personaggi, c’è la città, il quartiere; ci sono i popoli e le culture; c’è il passato, c’è la vecchia Europa della fuga e dell’emigrazione.
E Jack racconta: “Mio padre e mia madre venivano da un paesino della Polonia. Avevano tre figli. Mio padre decise di andare in America (…). Intanto in Polonia c’era la carestia. Non la fame che gli americani soffrono sei o sette volte al giorno. La Carestia, che ordina al corpo di consumare se stesso. Prima il grasso, poi la carne, poi i muscoli e infine il sangue. La carestia divorò ben presto i corpi dei piccoli.”
“Mio padre andò a prendere mia madre alla nave. Le guardò la faccia, e le mani. Non aveva bambini in braccio, non aveva bambini attaccati alle sottane. Non portava i capelli in due lunghe trecce nere. (…) La prese per mano e la portò a casa.” (…).
“Sono seduti sull’orlo della sedia. Lei si sporge in avanti per leggere alla luce di quella vecchia lampadina. Alle volte lei fa un piccolo sorriso. Allora lui mette giù il giornale e le prende le mani nelle sue come per riscaldargliele. Continua a leggere. Oltre il tavolo e le loro teste, c’è l’oscurità della cucina, della camera da letto, del tinello, l’oscurità piena di ombre dove da bambino mangiavo la sera, facevo i compiti e andavo a letto.”
Il futuro ha sempre una storia da raccontare. Come il passato, che ne risulta illuminato. Talvolta, risolto. Specialmente se la voce che lo ripercorre è, di fondo, capace di ottimismo e allegria, come di dolce affettuoso sarcasmo. Quello dell’incipit di queste storie:
“Vidi il mio ex marito per la strada. Ero seduta sui gradini della nuova biblioteca.
Ciao, vita mia, gli dissi. Il nostro matrimonio era durato ventisette anni, mi sentivo giustificata.
Lui disse, Come? Quale vita? Non la mia.
Io dissi OK. Non è mia abitudine discutere, quando le posizioni sono inconciliabili (…).
Il mio ex marito mi seguì fino al banco della restituzione. (…) Per tanti versi, disse, attribuisco la colpa del fallimento del nostro matrimonio al fatto che tu non abbia mai invitato a cena i Bertram.
E’ possibile, dissi io. D’altra parte, se ben ricordo: primo, quel venerdì mio padre stava male, poi sono nati i bambini, poi ho cominciato ad andare a quelle riunioni del martedì sera, e alla fine è scoppiata la guerra. Dopo, mi sembrava di non conoscerli più, i Bertram. Comunque, hai ragione. Avrei dovuto invitarli a cena.”
Grace Paley (1922 – 2007) è considerata, a ragione, una delle più grandi narratrici del ‘900. Ha scritto poco. Era una donna molto impegnata a vivere, e ad ascoltare gli altri. E ad arrabbiarsi. E a combattere.
Quel che è certo, è che ogni suo racconto, il più breve, costituisce, nella sua scrittura rapida, essenziale, ironica e carica di affetto, una grande narrazione, completa, un film che richiede di essere ripensato e introiettato nella lentezza. Grace Paley ha scritto molto. Tutto.
Einaudi ne ha pubblicato l’opera completa.