“Chiunque di noi, vero o inventato che sia, merita un destino aperto nella vita”

A pesca nelle pozze più profonde, Paolo CognettiPaolo Cognetti, “A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti”, Minimum Fax 2014.

 

Mio marito mi regalò una scopa per Natale. Nessuno può convincermi che fosse un pensiero gentile.” (Grace Paley, “Un interesse nella vita”, in “Piccoli contrattempi del vivere”).

Di mattina lei mi versa il whisky sulla pancia e se lo lecca tutto, di pomeriggio cerca di buttarsi dalla finestra.” (R. Carver, “Gazebo”, in Principianti)

In autunno c’era ancora la guerra, però noi non ci andavamo più” (E. Hemingway, “In un altro paese”, in: “I quarantanove racconti”).

Questo è un “racconto di racconti”. A partire da tre grandi incipit. E, in un racconto, l’incipit è spesso tutto: è ciò che costringe a restare, è tardi, si vorrebbe lasciare la compagnia, tornare a casa. Ma quel tale ha preso a raccontare. Si resta ad ascoltare la storia, ci si dimentica che si voleva andar via.

Perché è così. Il narratore è una voce che racconta e prende all’amo la nostra attenzione; e se il narratore è bravo, le divagazioni sono altrettanto interessanti del fatto centrale.

Cognetti inizia con una metafora che ha a che fare proprio con il prendere all’amo il lettore, anche se dà alla cosa un senso diverso.

“(…) mi misi in testa che, se volevo diventare un bravo scrittore di racconti, dovevo imparare a pescare. (…) Che cosa si fa, mi dicevo, quando si va a pescare? Si sta da soli in riva all’acqua, che è la vita, cercando di catturare i pesci che ci nuotano dentro, che sono le storie

Ben congegnata, vero? E il seguito è anche meglio, si passa da una trota (tanto per dire) alla lotta del vecchio Santiago con il grande pesce spada.

A me piace pensare che quell’amo cattura lettori, affascinati. Inizia un viaggio attraverso la narrativa americana, dentro quel particolare genere (non amato dagli editori, si dice) che sono i racconti, dentro la vita degli autori e dentro il combinarsi di vita e racconto.

Il risultato sta nel grande piacere di leggere una voce. Leggere questo libro equivale ad ascoltare un grande affabulatore che parla, narra, sembra divagare (il bravo affabulatore lo fa sempre, e le divagazioni sono a loro volta racconti nel racconto) mentre, da bravo scrittore, in realtà sta sul pezzo e non c’è parola che sia meno che necessaria, meno che quella giusta; non c’è, in questo libro, una parola in più. Perché questo è ciò che caratterizza il racconto, e Cognetti assegna ai suoi autori più amati ciò che applica con assoluta perizia nella sua prosa e nella sua gestione della storia, vale a dire “(…) l’economia assoluta di parole e immagini, la complessità che potevano nascondere, il grande dentro al piccolo.”

Mi vengono alla mente – strana associazione, ora dovrò scoprirne il perché – le parole di un mio vecchio e amatissimo professore di Storia dell’Arte: diceva che la differenza tra un bel quadro e una crosta sta nella pennellata in più che il ‘crostaiolo’ non si trattiene dall’applicare.

Ecco, in questa scrittura, non c’è nessuna pennellata in più, e davanti ai nostri occhi, mentre ascoltiamo, si aprono paesaggi, scorci, angoli di città, case; si muovono persone che, chissà come, ci risultano conosciute, rimescolano i nostri ricordi; ci si presentano situazioni, storie di quelle che, chiacchierando, con una persona amica, con qualcuno a noi vicino, ci si dice ma pensa un po’, chi sa mai come sarà andata a finire. E mentre si parla, si ricorda, gli occhi della mente vedono: quello scorcio, una strada, la casa; si rinverdisce il ricordo di qualcosa che, per noi non era stato così ma avrebbe potuto esserlo, e comunque quella storia sta, non si sa come, dentro la nostra vita.

Ci sta anche perché – il genere ‘racconto’ sta tutto qui – consente al lettore di proseguire per una propria strada, di prendere altre strade:Il racconto non è solo una narrazione breve, è una narrazione incompleta. (…) Il racconto, diceva Grace Paley, è un punto di domanda. (…) è piuttosto come una finestra sulla casa di qualcun altro (o come in una poesia di Carver, “Chiudersi fuori e poi cercare di rientrare”, è una finestra su casa nostra quando abbiamo dimenticato le chiavi”).

Cognetti opera diversi fuochi: il tema del paesaggio. Della ‘Casa’. Il racconto come fotografia. Il tema della luce.

“Tutto quello che voglio”, disse una volta Edward Hopper, “è dipingere la luce del sole sul muro di una casa”. Da scrittore di racconti la sposo in pieno. Come cade la luce e ci mostra il mondo, le domande nascoste dove la luce non arriva: di che altro dovrei scrivere se non di questo?”

E la casa, i molti racconti che la prendono a tema; e il paesaggio: “Tracci mappe dei luoghi in cui hai lasciato l’infanzia, amato una donna, combattuto una guerra, e speri di conservare, insieme a loro, qualcosa di te.”

Affronta poi il tema della posizione del narratore, ci parla della sua necessità di “ascoltare” i personaggi, di non farsi irretire dalla trama, come dice Grace Paley, di cui Cognetti ci restituisce parole bellissime: “Chiunque di noi, vero o inventato che sia, merita un destino aperto nella vita”.

Ogni riflessione è recuperata, e raccolta con cura, dai racconti di grandi autori che, alla fine, ci parrà di conoscere quanto i loro personaggi, e di poterli lasciar vivere come loro li hanno lasciati vivere. Cognetti definirà questi racconti “capolavori di reticenza”: e sarà grande il guadagno del lettore, che potrà immergersi dentro quella storia facendola essere tutte le storie che sentirà possibili, con tutti i potrebbe, gli e se, i vorrei e i mi piace pensare, che vorrà.

Incontreremo – veri come i personaggi cui hanno dato vita – Hawthorne e E. Alla Poe, Melville, Fitzgerald, Salinger e John Cheever, Hemingway e Carver, Grace Paley e Flannery O’Connor, Alice Munro e D. F. Wallace, e altri. Alcuni noti, altri meno.

In questo libro, tuttavia, non c’è solo il Cognetti ‘scrittore di scrittori’, c’è anche lui. Che fa vivere, parlandone così come ha fatto con i personaggi di opere altrui, la protagonista della sua ultima raccolta di racconti – “Sofia si veste sempre di nero“, Minimum Fax – cui lascia, buon allievo della Paley, un destino aperto, e di cui dunque può pensare: ‘che starà facendo ora Sofia? La immagino mentre…’

Ora andrò a conoscere Sofia.