“Era quello il giorno atteso da anni…”

il-deserto-dei-tartariDino Buzzati, «Il deserto dei Tartari», Mondadori 2001

Incredibile quante cose avvengano, quanta vita ci sia, in una intera esistenza in cui sembra non succeda niente se non, appunto, il fatto di vivere e di esserne consapevoli.

Di questo libro, che si avvia a compiere ottant’anni senza aver perduto nulla della sua giovinezza, è stato detto e scritto molto. Si tratta di uno di quei libri che anche chi non ha letto sente – erroneamente – di conoscere: assegnandogli il significato allegorico di Vita come Attesa, priva di senso, che richiederà unicamente l’accettazione, ognuno per sé, della propria, unica, individuale, fine.

Una storia di cui, dunque, è possibile dire la trama, per la parte nota. Poi, a mio parere, il romanzo è altro.

E i conti con la lettura allegorica, infatti, non tornano, poiché l’accettazione della propria fine diverrà suggello, compimento, di qualcosa che dunque “è”, affermando, in modo veritativo, il valore insito nell’esistenza che ogni singolo vivente è chiamato a dichiarare suo.

E Giovanni Drogo, il protagonista del romanzo, lo farà. Alla grande. Avendo, come tutti, a tratti disperato del senso della propria vita, ma senza mai perdere veramente il controllo del proprio percorso e la comprensione.

Fortezza Bastiani”: l’espressione è divenuta, nel senso comune, cosignificante di un luogo dell’anima prigioniera di un’inutile, immotivata, attesa, priva di fondamento alcuno, che nulla giustifica, se non il bisogno di sfuggire alla disperazione del non senso.

Eppure, in questo racconto c’è vita, molta, intensa, che non patisce ombra proprio in virtù dello sfondo – la Fortezza e i suoi luoghi – che la contiene e la proietta oltre quel mondo militare tipizzato, quello sì, da una domanda di non-senso, un mondo che vive alimentando se stesso attraverso, propriamente, l’esclusione di finalità diverse dalla propria autoreferenzialità.  E che costituisce, in conseguenza, un non-luogo.

Il Deserto dei Tartari, luogo della frontiera, non-luogo per eccellenza, riceverà la sua non prevista esistenza dalle vite che lo abitano; un senso tanto più potente in quanto totalmente appartenente alle singole esistenze, frutto di creazione e realizzazione di ogni singolo e della comunità.

Avverrà così che Giovanni Drogo rimarrà, scegliendolo, a condurre la propria vita nella Fortezza, in attesa dei Tartari, a difesa della Frontiera da un nemico che, quando verrà (perché, ecco il punto, i Tartari, in questa storia, arriveranno) lo troverà prossimo a cadere sul percorso, impegnato, con le sue ultime forze, nella difesa della propria personale frontiera, della propria integrità.

La storia.

Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione (…) Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita”

Giovanni si avvia, sul sentiero che conduce alla vita, una strada impervia che il nostro protagonista compie, al passo del cavallo, per un breve tratto iniziale accompagnato dall’amico della prima giovinezza – e sarà un accompagnamento breve, già incrinato da un faglia che lascia alle proprie spalle i giorni e l’amico di un altro tempo, nel farsi di un nuovo paesaggio in cui, come ognuno, egli si dovrà inoltrare solo.

“(…) ma in fondo – si accorse Giovanni Drogo – il tempo migliore, la prima giovinezza, era probabilmente finito.

Avvicinandosi alla montagna, vi sarà l’accesso ad una valle, chiusa tra costoni scoscesi, mentre la via sale e lascia sul fondo il rumoreggiare del torrente. Conosceremo, con Giovanni Drogo, un paesaggio che si farà via via, al passo del cavallo, nel tempo di una notte e un giorno,  nel percorso verso un territorio sconosciuto. Perduta ogni possibilità di ritorno – alla giovinezza, all’infanzia, al tempo dell’attesa.

In uno spiraglio delle vicine rupi, già ricoperte di buio, dietro una caotica scalinata di creste, a una lontananza incalcolabile, immerso ancora nel rosso sole del tramonto, come uscito da un incantesimo

Giovanni Drogo

vide allora un nudo colle e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro: il profilo della Fortezza.”

“(…) si domandava che cosa ci potesse essere di desiderabile in quella solitaria bicocca, quasi inaccessibile, così separata dal mondo.

Quali segreti nascondeva?

Ma erano gli ultimi istanti. Già l’ultimo sole si staccava lentamente dal remoto colle e su per i gialli bastioni irrompevano le livide folate della notte sopraggiungente.”

E mi scuso per aver scansionato i periodi. Ne ho sentito la necessità. Spesso, in questo romanzo, si esce dalla prosa, nonostante la apparentemente piana, chiara, lineare scrittura dell’autore, che nasconde gemme e segreti.

Il giorno dopo, trascorsa la notte dormendo su un tratto di prato in declivio, il cavallo legato a un troncone d’albero, nel nulla di quel luogo (“Il cavallo batteva a intervalli le unghie sul terreno in modo antipatico e strano”), con il giungere dell’alba l’incertezza è finita e Giovanni Drogo è entrato nel nuovo mondo – che, a ognuno il suo, è chiamato a dotare di senso, prefigurando il proprio giungere alla frontiera, nel momento dell’incontro con il nemico, dell’ultimo passaggio, a chiusura del proprio percorso, che dovrà essere affrontato in bellezza.

La Fortezza – grandiosa, immensa, veduta da lontano – da vicino, dal dentro, è poca cosa, a presidio di un tratto di frontiera morta. Cui comunque è necessario far fronte, e forse questo è l’importante. Davanti alla Fortezza: “Un deserto, effettivamente, pietre e terra secca, lo chiamano il deserto dei Tartari (…) Più che altro una leggenda. Nessuno deve esser passato di là, neppure nelle guerre passate”, gli dirà un ufficiale incontrato in prossimità dell’arrivo.

La nuova vita comincia. La Via da percorrere si farà scegliere e condurrà a un esito dato, sola variante l’arrivarci avendo realizzato un riconoscimento: di sé, del percorso dovuto. Con onore. Mantenendo saldo e non tradito l’obiettivo.

Nel mezzo, la Vita: i personaggi, i rituali, l’attesa, sempre. Le amicizie e gli incontri. La tragedia.

E mentre scorrono avvenimenti, piccoli e grandi, che segnano i giorni e gli anni, chi legge si scopre cooptato nell’attesa del giorno in cui arriveranno i Tartari, del giorno della battaglia, in cui sarà realizzato l’assolvimento del compito; la vittoria o una morte gloriosa.

Nessuna allegoria sul non senso della vita, inutile attesa della morte dunque, in questo libro. Un dovere di solitudine, invece, che è altro da un destino, nei cui confronti si sia disarmati. Solitudine non come rifiuto, assenza, di relazioni significative; nessuna incapacità di dare e ricevere amicizia, di stabilire legami, affiancando lo scorrere di altre vite.

Si tratta di una solitudine che ha a che fare con un senso aristocratico della vita, inteso quale consapevolezza di sé e del posto, qualunque sia, che è nostro compito occupare nel mondo: rispondendone a se stessi, e a nessun altro.

L’addio. Il maggiore Giovanni Drogo sta lasciando la Fortezza. In carrozza. Nel giorno in cui il nemico è arrivato e la Fortezza si rianima.

Per un istante ancora rimase negli occhi di Drogo l’immagine delle mura giallicce, dei bastioni a sghembo, delle misteriose ridotte[i], delle rupi laterali nere per il disgelo. Parve a Giovanni – ma fu un infinitesimo di tempo – che le mura si allungassero improvvisamente verso il cielo, balenando di luce, poi ogni vista fu tolta brutalmente dalle rocce erbose entro cui sprofondava la strada.

Il pensiero della morte si fa diverso. Non è più il desiderio della bella morte, in battaglia, se così avesse dovuto essere, se l’attesa avesse avuto un senso, meglio, se l’attesa non lo avesse fatto attendere troppo.

“(…) il maggiore Drogo per un istante sentì che il duro carico dell’animo suo stava per rompere in pianto.

E sentì allora nascere in sé una estrema speranza (…) perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita. (…) Perché può essere bello morire all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba.

E tuttavia: c’è un’opzione più alta.

Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.

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[i] Mi piacerebbe davvero sapere cosa cavolo sia una “ridotta”. Un termine, il solo, credo, che rivela l’età di questo romanzo, quando evidentemente le guerre avevano reso familiari certe parole del gergo militare e le cose che designavano. Se qualcuno me lo sa dire, mi toglie una curiosità.