Leggere potrebbe essere un mestiere pericoloso

Alice Basso, “L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome” (2015), “Scrivere è un mestiere pericoloso” (2016), “Non ditelo allo scrittore” (2017), Garzanti

Mentre proseguo la lettura di “La caduta nel tempo” di Cioran e cerco, nel contempo, di inquadrare meglio ciò che conosco di questo autore perché senza di ciò la lettura dei suoi scritti risulta, per me, difficilmente inquadrabile all’interno di una linea di pensiero, le mie notti sono state favorite da tre romanzi umoristici – una trilogia, in effetti – genere giallo ma non proprio. Autrice: Alice Basso; di cui questi tre libri –  pubblicati a scansione annuale: 2015, 2016, 2017 – costituiscono unitariamente l’opera prima.

Dell’autrice, che non conoscevo, trovo solo l’informazione che dice trattarsi di una trentottenne – vale a dire che, quando ha iniziato a scrivere questa storia aveva l’età attribuita al personaggio della giovane dottoressa Silvana Sarca, detta Vani, professione “Ghostwriter” presso una grande casa editrice torinese, voce narrante protagonista dei suoi libri. Leggo anche che “lavora per diverse case editrici come redattrice, traduttrice, valutatrice di proposte editoriali”, cosa che aggiunge un pizzico di sale aggiuntivo alle sue storie e all’umorismo con cui le traduce.

Ed eccomi qui a parlarne essendomi ritrovata non solo a leggere i suoi libri, di fila, tutti e tre, ma anche a rileggere il terzo e ora, avendo scelto di scriverne, a riprendere il primo, già sapendo che quantomeno spulcerò il secondo. Confesso che non mi divertivo tanto dal tempo del primo Malvaldi delle storie del Bar Lume. Godendo di una scrittura agile, efficace, di una storia, di una voce in prima persona, che si snoda senza cadute, movimentata da flash back temporali che, a miglior illustrazione della personalità della protagonista, ci riportano agli anni della sua adolescenza in famiglia, tramite brevi cammei in terza persona per dirci ciò che era accaduto all’uno o all’altro dei personaggi.

La storia. Si svolge a Torino dove la giovane Vani, intellettuale, genialoide, è riuscita a crearsi un lavoro come “Ghostwriter” presso le “Edizioni L’Erica”, una storica grande casa editrice, alle dipendenze di un direttore editoriale ragionevolmente ignorante in ambito letterario ma biecamente geniale per quanto riguarda la gestione commerciale dell’impresa.

Di Vani Sarca la Presentazione ci dice che, “dietro un ciuffo di capelli neri e vestiti altrettanto scuri, nasconde un viso da ragazzina e una innata antipatia verso il resto del mondo.”

Vani possiede tuttavia una qualità particolare, che non le semplifica la vita ma l’ha indirizzata verso il lavoro che svolge: è dotata di una capacità, elevatissima, di empatia, che la rende capace di immedesimarsi nelle altre persone, di acquisirne i modi del pensiero, della relazione con gli altri, il vocabolario; aggiungiamoci che sa scrivere “per” gli altri, come scoprirà già da ragazzina, nel doversi produrre in temi scolastici per la sorella, non brillante come lei negli studi: le sarà presto chiara l’opportunità di fare, di questa sua capacità, una professione, che le consentirà di vivere, come desidera, a contatto con i libri e con la loro produzione.

Vani è una persona che vive di lettura, desiderando unicamente venir ignorata dall’umanità che la circonda, non di suo gradimento, a cominciare da quella rappresentata dai componenti la propria famiglia, madre padre sorella, normalmente invadenti e scomodamente pervicaci nell’interessarsi a lei.

Vecchio impermeabile nero malandato, rossetto viola, borchie e bigiotteria di metallo, Vani suscita sospetto in chiunque la incontri. Non essendo tuttavia un suo bisogno il risultare simpatica, la nostra fa consapevolmente del proprio meglio per non esserlo. Va detto: non riuscendovi.

Ed ecco un primo piacere di questa lettura. Sarà impossibile non amare Vani. Ma non è tutto: sarà impossibile non amare il viaggio che la sua compagnia ci regala dentro la grande letteratura di genere poliziesco, e non solo, fino a farci vivere un qualche tipo di rovesciamento della realtà: ci ritroveremo circondati da personaggi che escono direttamente da libri, da quelli che ogni lettore ama, e così, come sarà necessario rivedere in Vani una Lisbeth Salander rivisitata, incrociando il Commissario di Polizia Romeo Berganza, ci ritroveremo ad incontrare, come da copione, un tale “tra i quarantacinque e i cinquanta. (…) con la faccia di uno che non si ricorda l’ultima volta che ha dormito per più di tre ore. Ha gli occhi scuri con occhiaie profonde, il naso irregolare, la barba fatta ma egualmente stropicciata. Indossa un impermeabile (…) beige. Così incorniciato dal rettangolo della porta, giuro che sembra Dick Tracy (bene anche un redivivo Philip Marlowe) in una vignetta, solo senza cappello. Mi aspetto che una vamp bionda e un buttafuori da night gli compaiano alle spalle da un momento all’altro, tanto per completare il tipico cast.”.

Ma non basta. La nostra ci condurrà ad incrociare storie lette, vecchi romanzi, classici della nostra storia di lettori, come in un film cui non mancheranno le musiche adeguate, frequentando un giovane scrittore, Riccardo Randi, bravo di suo ma che ha avuto, ciononostante, bisogno dell’aiuto di Vani. Bello, giovane, affascinante (poteva essere altrimenti?) manipolatore quel tanto, e un po’ di più, di utile a rendere la sua compagnia più che desiderabile, e per tutto il resto in grado di pagare il fio con eleganza quando verrà colto in fallo di sincerità.

Si tratterà di qualcuno che desidereremo perdonare? Che spereremo ottenga il perdono, pervicacemente e fantasiosamente ricercato, della nostra protagonista? Dipenderà dal lettore, credo. Si potrebbe fare, e anche no. Suspense. Nel frattempo, la collaborazione professionale tra Vani e Riccardo avrà dato luogo alla scrittura di un libro bellissimo, e a dialoghi scoppiettanti che ci faranno saltellare tra un personaggio letterario e l’altro fino a confondere ciò che viene scritto con ciò che viene letto e con ciò che viene vissuto. Perché, dopotutto, “Ah, che palle questa vita in prima persona. Il non poter assistere con i tuoi occhi alle cose che succedono a meno che tu non sia presente, come invece puoi fare nei libri. (…) Solo in un libro, appunto, si vivono scene di cui altri sono i protagonisti.”

Nella vita di Vani entrerà anche Morgana, una ragazzina quindicenne, e Ivano, tredicenne, delle cui vicissitudini amorose-canore-esistenziali la supposta misantropa Vani finirà per occuparsi.

Ci sarà, e sarà centrale, con l’aspetto poliziesco introdotto dal Commissario Berganza (nel mondo di Vani succedono cose) l’ovvio intrigo amoroso, che fino all’ultimo non farà pendere la bilancia del favore di Vani tra i suoi due pretendenti, l’uno impegnato in un corteggiamento favoloso e anche un po’ eccessivo (dovendo farsi perdonare molto) l’altro che non è chiaro se e quanto sia impegnato in un corteggiamento, mentre le vicende, investigative e non, evolvono.

Siamo nel campo della narrativa umoristica? Certo sì. La spruzzata di giallo ci sta tutta, c’è l’aspetto dell’indagine, cui tuttavia mancano, a ben guardare, i veri morti ammazzati. Manca, forse, per assegnare a questa storia la qualifica di romanzo poliziesco, il fatto che l’attenzione del lettore non si concentrerà più di tanto sul disvelamento del caso di turno, rimanendo maggiormente centrata su ciò che avviene nelle relazioni tra i personaggi, sui richiami ai mondi delle storie che il lettore ama, sul piacere dei dialoghi scoppiettanti, sull’attesa della nuova risata. Perché, a ben guardare, cos’è un’indagine se non qualsiasi cosa interroghi uno sguardo curioso, non importa a proposito di cosa, che non sa darsi pace finché non è venuto a capo di una domanda, di un’incertezza. Come dire qualunque cosa sostenga un qualsivoglia lettore, illuso che “roba del genere mica succede, nella realtà che conosco io. Certo, se fossimo in un feuilleton dell’Ottocento, non ci sarebbe nulla di strano. E neanche se fossimo in un poliziesco di metà Novecento: il detective si limiterebbe a borbottare…e andrebbe ad annegare la propria disillusione in un tumbler di bourbon scadente in un bar di periferia. (…) Andrebbe bene anche se fossimo in un giallo moderno, ma di quelli surreali e caricaturali, alla Adamsberg o Malaussène: uno di quelli in cui vale tutto, anche l’esagerazione, l’iperbole, la sparata troppo grossa, senza nessun seccante vincolo di verosimiglianza. O magari in un thriller americano (…). Ma qui in che razza di giallo siamo?”

C’è molto altro. La scrittura, pregevole. Una dose, in crescendo, di turpiloquio che intreccia un linguaggio pulito, elegante, senza creare fratture o disturbo, intercettando perfettamente codici espressivi coerenti con i personaggi che ne fanno uso; riflessioni interessanti, sul mondo dell’editoria, in ordito, senza inopportune tracce di squalifica, con piccole, omeopatiche, iniezioni di realtà dentro una costruzione che porta le storie, la narrativa, sul piano del reale assegnando alla realtà una qualità di copia, non necessariamente brutta, solo in posizione di dipendenza.

Tante risate, molti sorrisi. Qualche sano ghigno. Alcuni buoni spunti per qualche seria riflessione.

Inevitabile: il personaggio avrà (ha già) un suo “continua”. Ecco, forse questa è la sola cosa che mi spiace. Da questa scrittrice, ora, vorrei altro. Per me, il personaggio e la storia sono totalmente risolti in questa trilogia. Magari tra una decina d’anni? Dopo nuove prove.

Ci avviamo a un periodo di feste – famiglia, pranzi, cene, giochini, regali. Poco adatto alla lettura. Tanto più avremo necessità di buoni libri capaci di leggerezza senza banalità: questi tre romanzi sono una buona opportunità.