Caldo: tanto, troppo, quantomeno per chi, come me, non lo ama. Il libro che sto leggendo è interessante e anche adatto, sì, può essere letto un po’ a spezzoni, anzi, è la sua cifra: il che, con queste temperature, va bene.
Wu Ming 1, “Cent’anni a Nordest. Viaggio tra i fantasmi della guera granda”, Rizzoli 2015. Il tema degli esiti, ancora operanti, delle grandi guerre del ‘900, in particolare per il territorio del nord-est italiano, aperto dal libro di Paolo Rumiz, mi sta ancora trattenendo, altri aspetti dello stesso tema.
Una lettura particolare, una riflessione che, partendo dalla grande guerra e dalla fine dei grandi imperi, correla fatti, resoconti di avvenimenti recenti, apparentemente i più diversi; costruisce ipotesi di lettura, avanza suggestioni.
Dunque leggo, annoto il fatto curioso, il fatto risaputo che, correlato ad un altro fatto, dà un risultato inatteso; sorrido leggendo la storiella divertente, di involontaria comicità: sapevate la storia del tal sig. Franco Putìn (con l’accento sulla ì, certo, è veneto) che si convince di lontane, ma non poi molto, parentele, con Vladimir Putin, molto amato dal popolo venetista e affini? Di ipotesi in ipotesi “c’è chi arriva a sostenere che Putin avrebbe fatto visita in segreto ai suoi parenti di Costabissara”. Poi, ciò che leggo, perlopiù, non giustifica alcuna allegria.
Nel libro si incontrano i tanti aspetti del tema Nordest – territorio multiforme, popolazioni che provengono da storie identitarie diverse, in qualunque modo sia possibile declinare il tema dell’<identità> in questi luoghi meticciati e stravolti in mille modi nel corso del ‘900, anche forzatamente: il pensiero va ai territori di Trieste, e del Trentino – Sud Tirolo ma non solo. Si aprono interrogativi, e ipotesi di risposta, interessanti, che riportano alla memoria altri libri letti: ad esempio, tra quelli che si trovano qui, Lilli Gruber, Storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo, oppure Paolo Malaguti, il bellissimo “Sul Grappa dopo la vittoria”.
E naturalmente il libro si ricollega – anche con riferimenti diretti – a “Come cavalli che dormono in piedi” di Rumiz, e dunque potrà dar luogo a un consiglio di lettura più che a una recensione. Ci penserò.
E’ sicuramente un libro interessante. Reportage, fatti, un aiuto a riflettere, in questo anno di centenario (non della vittoria no, le guerre non si vincono, mai), ed è strano come avvenimenti apparentemente slegati, e distanti tra loro nel tempo possano portare, se posti in correlazione, ad esiti impensati, un po’ come se, con gli stessi pezzi, si potessero comporre puzzle diversi, qualcosa così.
Ho anche iniziato la lettura di “Le benevole” di Jonathan Littell: no, non è vero, non proprio; ho solo letto le prime venti-trenta pagine, per un assaggio, per prendere le misure al libro. Il romanzo narra, in prima persona, la vita di un ufficiale delle SS, personaggio di invenzione che, rifugiatosi in Francia al termine della guerra, vive una tranquilla vita borghese senza che mai il segreto della sua vita precedente sia scoperto; e racconta, per sé. Forse. E’ il racconto di un ‘non pentito’, una storia vista dalla parte del criminale. Malloppone, per dimensioni e per contenuto. Ne ho subito interrotto la lettura perché, a fronte di una scrittura avvincente, molto, non ho potuto che dire no, non è questo il suo momento.
Ora, è il tempo in cui cerco, desidero, la leggerezza. Leggere è un’attività che deve far bene e anche se non sempre, o non solo, ciò che fa bene è divertente, leggero, facile, gradevole, queste sono qualità importanti in un libro. In taluni momenti, necessarie.
Scorro gli scaffali alla ricerca non so bene di cosa. Mi sono trovata a ripercorrere i vecchi Oscar Mondadori; a soffermarmi su autori che, da adolescente o poco più, sono stati grandi passioni, al tempo in cui “Guerra e pace” o “La grande pioggia” del credo abbastanza dimenticato Louis Bromfield potevano anche essere intercambiabili. Ho trovato, dello stesso autore, “Notte a Bombay” e “Mrs Parkington”, libro, quest’ultimo, molto amato, letto e riletto al tempo suo e che ora non potrebbe funzionare. So solo che, in questi giorni, voglio una rilettura, un libro conosciuto, niente sorprese, una rimpatriata da vagliare bene.
Su questa falsariga ho appena riletto – un pomeriggio al mare, sotto l’ombrellone – John Steinbeck, “I pascoli del cielo” e sono rimasta vagamente stranita. Non dal libro, no. Che è bello, che ho letto con piacere, la scrittura di Steinbeck scorre in un modo che oggi è riposante di per sé, così pulita, colloquiale, il che non ne impedisce la tragicità, anzi, ma in una forma, ebbene sì, ‘riposante’ è l’aggettivo giusto per un ossimoro che credo esprima ciò che intendo. Il libro mi ha tuttavia disorientata perché, nel prenderlo in mano, il mio ricordo di quelle pagine era altro mentre, nel contempo, ne ricordavo perfettamente i racconti. Li riconoscevo. Ma quel libro, nelle mie intenzioni di lettura, doveva essere un altro libro.
Infine ho capito, ho ricordato: nella mia testa si erano confusi titoli diversi; nelle mie intenzioni di lettura, nel mio cuore, proprio così, proprio nel cuore, c’era “La valle dell’Eden” e non “I pascoli del cielo” (‘valle, pascoli, il cielo, il paradiso, ecco là’) e il ricordo di un’emozione che non mi ha mai lasciata – non un vero ricordo, non proprio, un qualcos’altro che mescola (ma come si può!) la Genesi, la Bibbia, con il volto, il corpo e il passo dinoccolato di James Dean. Proprio così: quel libro era stato il mio primo incontro con il testo biblico; mi aveva portato ad avvicinarmi a quella suprema mitologia: erano gli anni 60, il mondo cattolico di allora non conosceva la Bibbia e anzi veniva dissuaso dal frequentarla, mentre i film, quelli venivano riproposti e riproposti, sempre gli stessi per anni. Ecco com’è andata: tra i quindici e i vent’anni, ma più quindici che venti, James Dean, protagonista del film tratto dal libro, non era qualcosa su cui scherzare, oltretutto il fatto che fosse morto giovane rendeva tutto ancora più romantico. James Dean e la Bibbia, insieme, ci stavano eccome. Il Cantico dei Cantici: «Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me. Vieni, amato mio, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo nelle vigne; vedremo se germoglia la vite, se le gemme si schiudono, se fioriscono i melograni: là ti darò il mio amore!”
L’adolescenza funziona così. E, diciamolo, funziona bene. Dovrò assolutamente rileggere quel libro. Non ora. Sempre di malloppone trattasi, credo. Ora è molto tardi, vorrei andarmene a letto e devo cercare qualcosa da leggere.
Nota del mattino: da non crederci. ieri sera, alla fine, me ne sono andata a letto con “Player one” di Ernest Cline. Il caldo, non c’è che dire.