Paolo Malaguti, “Sul Grappa dopo la vittoria”, editore Santi Quaranta 2014 (quinta edizione)
Non so perché ho atteso tanto a leggere questo libro, per il quale ogni momento sarebbe stato quello giusto. In ogni momento vi è, da qualche parte, una guerra, un dopoguerra; e ora la guerra si è avvicinata a noi. Forse questo è dunque il momento giusto, quello in cui qualcuno, oggi, parla come se avesse “voglia di inzupparsi di nuovo gli scarponi nel sangue”. O farli inzuppare agli altri dato che, solitamente, chi propaganda la guerra non è chi poi viene mandato a farla.
Chi parla oggi non l’ha mai fatta, neppure i suoi padri l’hanno fatta, generazioni europee fortunate come mai nella storia; oggi sembra che gli ultimi, pochi, che ricordano, e cercano di alzare la loro voce, siano inascoltati, mentre da parte di troppi vi è una voglia di fuga dissennata dal problema, vi è il non crederci, il distrarsi; e si dimenticano le saggezze contadine che libri come questo riportano alla memoria, capaci se accolte di farti vivere una buona vita, magari non di lusso, ma buona.
Oggi si sentono inviti alla guerra. Inni a grandi valori da difendere: “Cò i te dis de vardàr in alt, vol dir che i xe drio ciavarte el tacuìn”. Che non sta per la riduzione di alti ideali alla difesa di piccoli interessi ma per la consapevolezza che grandi interessi operano per mangiarsi il tuo piccolo pane e la tua buona vita, fintamente coprendo i propri fini con falsi ideali e falsi principi.
Il romanzo parla di un prima – prima di una guerra vittoriosa (ma nessuno ricorda davvero come tale la Grande Guerra); parla di un paese, Sant’Eulalia, borgo del Comune di Borso del Grappa, alle pendici del Massiccio del Grappa; parla di una gente, di una lingua e di un modo di vivere e di stare insieme, di essere una comunità. Parla di gente che lavora la terra, della scelta di una famiglia di far studiare un figlio, perché così “te starè mejo de noantri” – dove quel “noantri” equivale a creare una distanza, perché il figlio possa camminare lungo una sua strada, al prezzo di non poterlo seguire, amarlo fino al punto di perderlo.
E conosceremo, leggendolo, un tempo e un modo di vita e di esser bambino, di fare i conti con la crescita, con il primo guardare alle ragazze: si sorride, c’è l’immagine di una santa nella chiesa del paese, dipinta al momento e nell’eccitazione di un imminente martirio, che fa sorgere alcune idee non proprio sante nel ragazzino, un vero e proprio innamoramento, con l’aggravante di non poter “cancellare la lavagna” con la confessione raccontando tutto a don Sante.
Arriva la guerra. Il padre parte. Il fronte si avvicina e la popolazione di Sant’Eulalia viene evacuata. Si sperimenta l’abbandono della propria casa e dei propri luoghi, in attesa di tornare. Per un bambino, la tragedia si colora di emozioni, il ragazzino comprende che gli adulti non sono contenti ma insomma, ci sono esperienze, una forma di libertà da sperimentare. La guerra finisce e si torna a casa.
E il romanzo parla di un dopo, quando il ritorno delle famiglie che avevano dovuto lasciare il paese, che erano state allontanate da quello che era diventato il fronte, rivela la distruzione: della propria casa, dei propri riferimenti, della propria terra, del lavoro e della possibilità di vivere e sfamare la famiglia. Anche il padre ritorna, ed è cambiato. Stanco. Chiuso.
Il figlio chiede al padre di raccontargli la guerra, senza ottenere risposta. Poi, un giorno, il padre parla, sta zappando il suo campo e il figlio è con lui:
“Ti no te sì come i altri. (…) Ti te studi (…) ti te sé tante robe, pì de mi, de to nono.”
“Ma dea guera no te digo gnent. Gnent. (…) A ghe se stata…No ghe xe stat gnent. Go fat robe brute. Brute.”
Poi riprende il lavoro, la zappa per un momento lasciata cadere, e chiude il discorso: “Va’ da to mare”.
E un giorno dirà al figlio: “Doman ‘ndon in Grapa”
Un padre porterà un figlio, bambino, sul Grappa, ad affrontare l’attività illegale e pericolosa del ‘recuperante’; lo accompagnerà fino a un certo punto, invitandolo poi a proseguire solo, con il suo sacco da riempire di materiali da rivendere: per il ragazzino è il terrore, l’abbandono. Sulla montagna ci sono i morti, le migliaia di ragazzi, italiani e austriaci, abbarbicati al filo spinato, bocconi nelle trincee, sventrati dai colpi di mortaio, soffocati dai gas; l’odore ammorba. E ci sono i materiali, ferro, piombo, rame, suppellettili, oggetti utili e persino viveri, da recuperare. E ci sono i militari, e i carabinieri impegnati a impedire il furto di materiali preziosi, di beni dello stato, e il terreno è pericoloso, l’attività è pericolosa, la montagna divenuta un luogo orrido e sconosciuto.
Bisogna sopravvivere. E bisogna, anche, dire al figlio, mostrare la guerra – a dieci anni, a quel tempo, si cominciava a lavorare, ci si addestrava a diventare uomini e donne.
Sono pagine potenti, dove la morte della montagna, e dei ragazzi del ’99, e di tutti gli altri prendono corpo, e prende corpo la pietà, insieme alla realtà, all’orrore e alla capacità di guardarlo in faccia, alla fatica e alla capacità di ricominciare, perché la guerra “a ghe se stata” e non era possibile lasciare a conclusione le parole “no ghe xe stat gnent”, e le “brute robe” dovevano essere conosciute, per crescere.
Il ragazzo supererà l’esperienza, diverrà esperto di quel mestiere. Crescerà poi affrontando il suo futuro diverso, inizierà il ginnasio a Bassano del Grappa, tutti i giorni in bicicletta; incontrerà una ragazza, un amore per il suo domani.
E non mancano incontri, voci, donne e uomini con cui e di cui sorridere; il tutto dentro un territorio bellissimo perché conosciuto, amato, e di cui aver cura. La montagna lentamente ricomincia a vivere.
Questo romanzo lascia un senso di pace, quella vera, che può crescere solamente dentro le persone, dalla capacità di affrontare la vita e le sue prove, da cui emergere senza che più nessuno possa raccontarci che la guerra ha un senso.