“Italiani con la divisa sbagliata”

Come cavalli che dormono in piediPaolo Rumiz, “Come cavalli che dormono in piedi”, Feltrinelli 2014

 

CHE I VOSTRI MULINI TORNINO A MACINARE, CHE I VOSTRI OCCHI SPLENDANO DI NUOVO, CHE LE VOSTRE FALCI DI NUOVO RISUONINO E DI NUOVO CANTINO LE VOSTRE DONNE

Questa iscrizione si trova sulla lapide che orna la sepoltura di un soldato russo, in uno dei quattrocento cimiteri austroungarici di guerra della Galizia, in Polonia, curati dalla Croce Nera d’Austria, l’organizzazione che si occupa di curare i luoghi in cui sono sepolti soldati austriaci. E la Galizia, nei primi sei mesi di guerra, è stata il teatro di uno dei più grandi massacri di quella guerra.

La scritta si trova sulla tomba di uno dei tanti soldati russi che, sepolti in quel cimitero austriaco in Polonia, riceve in quel luogo una cura che non discrimina, nella morte, chi allora fu nemico.

LA MORTE DEL SOLDATO SPEZZA IL CONCETTO DELL’ODIO. AMICO E NEMICO, STRAZIATI DALLE FERITE, SONO DEGNI DI EGUALE AMORE E ONORE

L’Austria-Ungheria avviò la costruzione di quei cimiteri, quattrocento, a partire dal 1916, dunque a guerra in corso, assegnandone la progettazione ai migliori architetti e la cura ai migliori giardinieri.

Paolo Rumiz, triestino, scrittore e giornalista – è il 2013 e le cerimonie per il centenario della Prima Guerra Mondiale sono in arrivo – si interroga, certo non per la prima volta, sul significato del ricordo, sul bisogno di dare una voce ai morti di quella catastrofe, sul bisogno che sente di ‘ascoltare le voci’ di chi ha lasciato la vita su quei fronti di guerra, di conoscerne le storie, e la molteplicità delle appartenenze, che le commemorazioni ufficiali annichiliscono.

Questo libro nasce dal bisogno, dalla volontà di Rumiz di porre a tema la storia di quelli che lui chiama ‘gli italiani con la divisa sbagliata’. E nasce dal ricordo assente di un nonno, Ferruccio Pittaco, non conosciuto perché morto prima della sua nascita, che quella guerra combatté e da cui ritornò. Il ricordo assente, la storia sconosciuta di questo nonno si somma al ricordo di una nonna che, oltre ad arrabbiarsi se qualcuno chiamava la prima guerra mondale “Grande Guerra” (perché nessuna guerra può essere ‘grande’), parlava della ‘guerra del ’14 e, al nipotino che la correggeva (a scuola aveva studiato che la guerra era iniziata nel ’15) rispondeva “Picio mio, noi de Trieste semo ‘ndai in guera nel Quattordici” e chiudeva lì il discorso.

Nasce così un viaggio, alla ricerca di morti ‘ignoti’ che gli appartengono, che sono i ‘suoi’ triestini, i ‘suoi’ trentini, tutti i ragazzi di cui l’Italia, dopo il 1918, ha cancellato persino i nomi – non ‘militi ignoti’, dunque, bensì ‘militi ignorati’ e finanche nascosti, caduti per una patria (se così si può dire) che non era l’Italia, non allora, non ancora, desiderata e anche no.

Partenza da Redipuglia, da quel freddo marmo che gela il ricordo annullando le identità, che obbliga i morti sull’attenti e dove non è permesso portare un fiore. E viaggio, in treno, sulle linee che sono ancora quelle asburgiche di cent’anni fa, su cui hanno viaggiato le tradotte che hanno portato al fronte i ‘nostri’ soldati con le divise diverse. Polonia, Ucraina, Ungheria….

Paolo Rumiz va, armato di lumini, alla ricerca dei ‘suoi’ nonni e le sue pagine sono un fiorire di incontri, di luoghi, di storia, mescolando racconti di trincea, venati di umorismo e impregnati di fatica fame e sofferenza, con storie di popoli, con pagine che esplodono ai nostri occhi paesaggi, boschi, immense pianure e montagne; tramonti, stazioncine asburgiche, paesi dai nomi impossibili e gente, e voci, difficile distinguere, alla fine, le voci dei vivi dalle voci dei morti.

Dalle pagine si alzano, e parlano, tutti, parla la terra e parlano gli alberi che contengono il ricordo e che ne conoscono, soprattutto, la persistenza: di una storia che non si è chiusa, di ferite che, a distanza di cent’anni, ancora provocano sommovimenti in questa nostra Europa che, oggi, si rivela molto meno Europa di allora quando, al tempo degli imperi, non esistevano frontiere e la convivenza, che oggi diremmo interetnica e interreligiosa, nei territori di frontiera, era vita quotidiana.

Si evidenzia la continuità che rende un’unica guerra il periodo 1914 – 1945, e fornisce la chiave di lettura del nostro oggi; che rende ragione di ciò che è avvenuto, nel recente passato, e sta avvenendo in questo momento.

“(…)“Ed è la fine di tutto in quel dannato Quattordici : la fine della politica che non controlla più niente ; la fine del discorso, sostituito da slogan e brandelli di frasi ; la fine dell’individuo, che non può nemmeno indignarsi perché non sa dove si nasconda il burattinaio della sua piccola disgrazia ; la fine dell’uomo contadino figlio di una piccola Heimat, lasciato solo col suo corpo miserabile sotto il peso di eventi immani, uomo che diventa massa, materiale al servizio di un’industria bellica che, a sua volta, è parte integrante dell’economia e non una sua antitesi.

Il viaggio si conclude e ricomincia. Alluvione della Bosnia 2014. Memoria che si ricongiunge, che correla gli esiti della grande ferita del ’14.

Non posso non pensare che, se lo scorso anno si è ‘celebrato’ il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale in un’Europa che si vorrebbe unita e in cui ogni nazione ha celebrato (o non celebrato) il proprio, separatamente, incapace di una memoria (e di un’identità) condivise, in questi giorni stiamo ricordando il ventennale del massacro di Srebenica, senza che alcuno osi dare ancora il nome – genocidio – a quei fatti, senza che le responsabilità siano dette e condivise. E allora le parole di Paolo Rumiz risuonano: “Il passante non impara che (…) la guerra moderna si accanisce proprio sui mondi plurali e bastardi, allergici alle identità monolitiche. Non capisce che la pace è finita per sempre nel ’14, con la fine degli imperi, e che da allora la Terra trema ancora, sulle stesse linee di faglia.”

La ricerca dei ‘nonni’, dei nonni di tutti, è finita. I lumini sono stati accesi lungo quel fronte; le voci sono state ascoltate, sono state ritrovate. Sono stati raccolti, e gustati, mirtilli, i più gustosi mai mangiati, prugne, nate su quei terreni concimati dai morti. La terra ha accolto, e pacificato, quei corpi tramutandoli in vita.

La storia si conclude a Redipuglia, dove Rumiz torna, a raccontare di aver compiuto ciò che aveva promesso e chiudere il suo viaggio accendendo i suoi lumini alla base della scalinata e portando un “rancio di lusso”: “Asparagi selvaggi del Carso, salmone affumicato del Dnepr, una scodella di barszcz alle rape rose di Lublino (…).

Mastico lentamente in compagnia delle ombre. Poi stendo una stuoia sul marmo, all’altezza della lettera m come madre, e mi corico a guardare il cielo.”

Si avvicina una cane. “Gli do un po’ del buono rimasto, e lui mi si accuccia vicino. Custodirà il mio sonno fino all’alba del nuovo giorno.”