Grace Paley, “Fedeltà”, minimum fax 2011. Traduzione di Livia Brambilla e Paolo Cognetti.

 

Dopo Raymond Carver e Donald Barthelme – è trascorso un po’ di tempo ma era passato da queste parti anche il poco più anziano William Saroyan  – è necessario chiudere, per il momento, con quel tempo e quei narratori.

Vorrei farlo con un ritorno a Grace Paley (1922 – 2007), e alla Poesia che, a ben vedere, è la matrice di tutti i Racconti. Non ci possono essere dubbi: dentro ad ogni buon racconto opera un poeta, che ha scelto un linguaggio un po’ diverso, solo in apparenza più accessibile; che si è dilettato utilizzando un leggero mascheramento, tra cronaca e fiaba.

Allen Ginsberg, 1979

Allen Ginsberg, “Urlo” (“Howl”) La voce è tratta dall’omonimo film.

Completo questa breve disordinata e parzialissima visita alla beat generation e dintorni (qui e qui): non riesco a non chiudere con la poesia-manifesto da cui tutto è nato – e fa niente se non è proprio <così>, è uno dei tanti <così> di un fenomeno multiforme, di un percorso-sorgente dai tanti rivoli, genitore di molti fiumi, che ancora scorrono; o di cui, forse, oggi, stiamo assistendo alla fine, arrivati ad un mare ignoto (se non confondo l’esaurirsi di un percorso culturale con l’esaurirsi del mio personale percorso).

Janet Frame, “Parleranno le tempeste”, gabrielecapellieditore,  Lugano 2017

GCE/POESIA – Collana diretta da Fabiano Alborghetti.

A cura e traduzione di Francesca Benocci e Eleonora Bello

 

Un piccolo grande libro, da leggere sentendosi profondamente grati all’editore Gabrielle Capelli di Lugano e al curatore Fabiano Alborghetti. La prima antologia in lingua italiana delle poesie di una grande scrittrice.

Janet Frame (1924 – 2004), riconosciuta tra le grandi del ‘900, nel suo diario di adolescente diceva di sé “Tutti pensano che farò l’insegnante, ma io farò la poetessa”.

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Andrea Zanzotto

Andrea Zanzotto non è più tra noi ma parla ancora, e la sua voce è in grado di elevarsi alta, forte, pur se (solo) in apparenza rassegnata. Oggi, nel momento in cui il Veneto trova, per coprire il diffuso analfabetismo funzionale che cresce, lo strumento dello sdoganare, sotto la voce impropria di “dialetto”, la sgrammaticatura generalizzata e ufficializzata definendola “lingua veneta”.

E Amen, dice il poeta.

valentino-zeichenMi scopro a riprendere da dove ho lasciato. Brutta cosa l’autocitazione! Che, tuttavia, mi trova obbligata, dovendo dipanare un pensiero che si era interrotto su un punto interrogativo. Su di un “forse” – solo forse, leggo troppo. Forse, solo forse, dovrei – rileggere e rileggere fino ad imparare a memoria? Prendere dentro di me, trasformare in carne e sangue la parola? Quella che serve. Quella che posso contenere. E restituire.

Rudyard Kipling
Rudyard Kiplilng, Premio Nobel per la letteratura 1907

Ho voglia di parlar d’altro – sempre rimanendo seduta sui miei libri e con i libri per sostegno – ma, come dire, sento una specie di costrizione a portare, in questo spazio, i libri dentro la vita, dentro i problemi, gli interessi, le avventure, le gioie e le arrabbiature che segnano la vita, e che trovano voce, spunto, argomenti, nel dialogo con un libro.

Si affronta un problema, si apre un giornale, si segue un avvenimento: ed è ben difficile che, nella nostra mente, il giudizio, l’emozione, la riflessione che ne conseguono non trovino legami con qualcosa che si è letto – qualcosa che ci ha arricchito; che a nostra volta arricchiamo, rendiamo nuovo, fornendogli carne e sangue di realtà, aggiungendo significati, prendendo poi a nostra volta nuova vita e nuova esperienza dalle parole lette.

ingeborg-bachmann-poesie-guanda.jpgIngeborg Bachmann, “Tutti i giorni”. Da: “Il tempo dilazionato”, “Poesie”, a cura di Maria Teresa Mandalari, Ugo Guanda Editore 1978

 

Ingeborg Bachmann, una grande scrittrice del secolo scorso – che chiameremmo ‘contemporanea’ se la morte non l’avesse colta ancora giovane, a Roma, dove viveva, il 17 ottobre del 1973. Aveva 47 anni.

Una morte poco chiarita. L’incendio del suo appartamento, forse l’addormentarsi con la sigaretta accesa. Ustioni gravi, l’inutile ospedale.

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Il Gigante nelle Cinque Terre. Fotografia di Peter Forster

Al mare (o quasi)” – Eugenio Montale

Non so il perché, in effetti, ma nello scrivere l’ultima chiacchierata, nel darle un titolo, mi è echeggiata la chiusa di una poesia della vecchiaia di Eugenio Montale. Scritta al mare, Monterosso alle Cinque Terre, probabilmente. E comunque io lo immagino sempre in quel luogo, oggi ancora devastato dall’alluvione del 2011, temo.

Poesia in forma di rosa 2Pier Paolo Pasolini. “Poesia in forma di rosa”

Eppure, mai si parla della sua poesia. Si dice di lui, “è un poeta”; lo si dice come se il sostantivo avesse un valore di apposizione, ad integrare un altro sostantivo: romanziere, regista, sceneggiatore, artista, intellettuale, comunista (espulso dal partito ma fa lo stesso); con un improprio valore di attributo da assegnare al suo intero essere – senza, dunque, errore, in questo; il modo della poesia, si dice, è presente in ogni suo linguaggio, finalizza a sé lo strumento. E della sua opera poetica si dice poco.

La sua vita prevale, e con la vita la sua produzione più ‘sociale’. Dell’opera si parla nella misura in cui è utilizzabile per misurarsi nel giudizio sulla sua persona, sulle sue scelte di vita, sulle sue posizioni politiche, sulla sua influenza (sul <rischio> di una sua influenza) sulla nostra società. Nel tentativo di ridurne la voce, fino ad annichilirla.

Bertolt Brecht, Poesie politicheBertolt Brecht, “Poesie politiche”, Einaudi 2015.

Ci sono argomenti, della quotidianità, che non possono andarsene; necessariamente, sono presenti almeno in un angolo non trascurabile della mente di ognuno: comunque la si pensi, il tormento è là.

Il tormento si chiama “gli Altri“, che si presentano non come concetto ma come corpi menti storie parole incontri, contrasti. Come domanda. E non se ne vogliono, non se ne possono andare. Ed è fatica immane il pensiero, il ricordo, di essere (stati) proprio noi quegli stessi altri, in altro tempo, altro spazio, altro dolore, altra vergogna, che si fatica a cacciare. Qualcuno si sforza di più; qualcuno troppo. Qualcuno, un poeta, insiste – la sua voce risuona nel tempo, dal passato, recente o meno – e non permettere che si dimentichi.

internopoesia.com ha proposto questa poesia di Bertolt Brecht, “Sulla denominazione di emigrante” (qui), che vorrei invitare a leggere – in un sito che, lo dico per chi non lo conosca, consente di iniziare ogni giornata con il viatico di una poesia. Non è poco.

Ogni storia di una propria patria e di un proprio tempo, ognuno dei modi che portano all’esilio, tutti diversi, ha la stessa matrice – è guerra il conflitto armato tra stati, è guerra la fame, sono guerra da cui fuggire le politiche di oppressione, è guerra il male individuale che porta ad andare.

Il modo dell’esilio che ha portato Bertolt Brecht a scrivere non è <altro> rispetto ai modi dell’oggi. Ed è il modo che, anche dentro l’accoglienza, spinge ognuno di noi a vedere alcuni altri come diversi, per la paura di vedere un sé che fa male.

Nel frattempo, in Italia è stata approvata, ancora solo alla Camera, una nuova legge sulla cittadinanza, la quale afferma (con le parole della giurisprudenza, in modo che vengano, se del caso, poco o diversamente comprese) che un popolo è formato dalle persone che vivono insieme in un territorio, dove lavorano e fanno famiglia, e stringono relazioni, e parlano tra loro la lingua dei propri figli, vale a dire del futuro, e scambiano aiuto, e progettano e realizzano; e dunque, per necessaria conseguenza, chiamano quel luogo, e la sua lingua: ‘casa’.

C’è ancora un pezzo di strada da fare, per tutti noi. E tornano bene le parole di Bertolt Brecht, poesia? racconto? dove c’è un altro – altro da lui, altro da questi che oggi arrivano, come arrivavano (arrivavamo) ieri e come sarà domani; le parole dove c’è un tale, un ‘lui’ che facilmente possiamo sentire come un ‘noi’ che, ancora facilmente, può diventare un ‘io’.

L’esame per ottenere la cittadinanza

A Los Angeles davanti al giudice che esamina

   coloro

che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti

venne anche un oste italiano. Alla domanda:

cosa dice l’ottavo emendamento, rispose:

1492. Così venne mandato via. Ritornato

dopo tre mesi gli posero la domanda: chi

fu il generale che vinse nella guerra civile? La sua

   risposta fu:

1492. (Con voce alta e cordiale). Mandato via di

   nuovo

e ritornato una terza volta, rispose

ad una terza domanda ancora:1492. Orbene

il giudice, che aveva simpatia per l’uomo, si

   informò

sul modo come viveva e venne a sapere: con un

   duro lavoro. E allora

alla quarta seduta il giudice gli pose la domanda:

quando

fu scoperta l’America? e in base alla risposta

   esatta,

1492, l’uomo ottenne la cittadinanza.

 

ecology-450590__180Chiudo lo spazio dedicato a Grace Paley con una poesia-sintesi del suo pensiero, della sua scrittura e della sua vita; quasi un manifesto, un volantino (trattandosi di lei) da distribuire agli angoli del quartiere (dopotutto il mondo è un insieme di quartieri, di piccole comunità, senza soluzione di continuità, il che mostra, fuor da ogni ragionamento più o meno capzioso, l’impossibilità di non prendere a tema, e in carico, la vicinanza di ognuno a tutti.

Oggi questo ‘manifesto‘, mi pare particolarmente adatto – proprio per gli aspetti in apparenza anacronistici che lo caratterizzano – a riattualizzare, in un tempo diverso, il suo messaggio.